Il Discorso

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Un popolo nuovo.

Così aveva detto. «Noi non siamo un partito, noi rappresentiamo l'intero popolo. Un popolo nuovo!».

Centomila persone. Centomila persone che diventavano una cosa sola, che ascoltavano in silenzio - un silenzio religioso, quasi irreale - un discorso pieno di forza. Erano forti, le parole. Forti al punto di schiacciare, di esaltare.

«Noi resisteremo a qualsiasi pressione ci venga fatta!».

Tutto intorno a lei, occhi fissi in avanti, concentrati sulla figura di Hitler, talmente distante da sembrare minuscola. Donne come lei, uomini, persino bambini. Qualche ragazzo con indosso una divisa marrone. Persone vestite bene, persone vestite in modo misero. Persone che ascoltavano, che fremevano quando le parole - urlate, scandite - sembravano travolgerle in modo irresistibile.

«È un movimento che non può essere fermato! Non capiscono che siamo tenuti insieme da una forza irresistibile, una forza inarrestabile che non può essere distrutta. Noi non siamo un partito, siamo un popolo!».

Un popolo nuovo. Un popolo capace di rialzare la testa - ché la guerra era persa, sì, ma ormai apparteneva a un passato sepolto e distante, tanto lontano da dover essere seppellito e basta. Un popolo stanco della fame, dei disoccupati che ciondolavano per le strade, delle promesse mai mantenute dai partiti a ogni singola elezione.

Sarebbe stato diverso, forse, quella volta. Non che le parole avessero un significato particolare, per Gerda - erano voce e basta, e aveva ormai esperienza a sufficienza per capire quando le parole avessero un senso e quando invece fossero dette solo per dire. E non pensava, non aveva pensato nemmeno per un istante, che un uomo come Adolf Hitler sarebbe stato in grado di cambiare le sorti della Germania. No, non lo avrebbe votato. Non l'aveva convinta, non del tutto. Non pensava che fosse proprio tutto da buttare, quello che c'era. C'era, ed era qualcosa.

Era stato bello sentir parlare di popolo, questo sì. Perché era un concetto che aveva finito per dissolversi, nella frenesia affamata di quegli anni di crisi. Ma Gerda si era sempre sentita tedesca, si era sempre sentita parte di una cosa più grande di lei. Una cosa bella e grande e forte, come le persone che aveva intorno, migliaia e migliaia di individui uniti per formare un corpo unico, un essere compatto. Questo le piaceva.

Anche lo sguardo di Peter era fisso in avanti. Ascoltava attento. Certo, per lui era tutto diverso. Li sentiva molto più di lei, quei problemi che per Gerda non avevano senso. Annotava personalmente i conti di chi aveva perso il lavoro e non aveva di che pagare. Segnava i crediti, di tanto in tanto li cancellava, portava pazienza. Ma c'era davvero poco altro da fare, se non avere pazienza. E Peter lo sapeva.

Era arrivato in automobile, Adolf Hitler, passando al centro di un enorme corridoio umano che gli aveva fatto spazio, come mosso dall'alto. Era sceso, aveva salutato. La gente acclamava, urlava, sollevava le braccia per chiamarlo. E lui si era avvicinato alla folla, senza alcuna paura, aveva accarezzato un bambino, aveva atteso il silenzio. E il silenzio era arrivato, impaziente e deciso. Emozionante, come tutto quello che lo aveva preceduto. Come quelle volte in cui aveva incontrato il Kaiser, da bambina. Come quella volta che suo padre l'aveva tenuta sulle spalle per tutto il tempo, per farle vedere il Kaiser che passava e salutava, in alto, oltre la parete di teste e spalle. Emozionante.

Si era sentita importante, quella volta. E si sentiva importante in quel momento. Perché forse Hitler non l'aveva convinta, ma aveva convinto le persone che la circondavano, quelle che ascoltavano mute e rapite, occhi fermi, corpi che sussultavano.

«Parla tanto», le aveva detto Peter. A voce bassa, però, mentre il tram sferragliava verso Charlottenburg.

«Hai ragione».

«Ma è un bel parlare, sai. Dice le cose giuste, quelle che le persone vogliono sentirsi dire. C'è tanta stanchezza, in giro, della situazione che abbiamo. Pochi soldi, tanta fame e tutto il resto».

«Sì».

«E forse abbiamo anche bisogno di un po' di nazionalismo. Intendo dire - da quando c'è stata la guerra, sembra che abbiamo iniziato a fare a gara a chi si sente meno tedesco. Pare quasi che sia un'offesa, essere tedesco».

«Questo è vero».

Peter aveva scosso appena la testa. «E funziona poco, la democrazia. C'è poco da fare, suppongo, non siamo nati per essere democratici. Avevamo il Kaiser, e si stava bene, e poi arrivano dall'estero a dirci cosa dobbiamo fare. E così non funziona, nessuno fa nulla, nessuno può fare nulla».

Capitava di rado che Peter avesse voglia di parlare di politica. Preferiva i discorsi più concreti, in genere. Aveva le sue opinioni sull'andamento dell'economia, sulla guerra, su quello che succedeva all'estero. Non vedeva di buon occhio le prese di potere autoritarie, come era avvenuto in Russia. Ma la politica, soprattutto quella tedesca, non gli interessava così tanto. Era un'idea troppo astratta, forse, troppo in divenire.

«È stato il Kaiser a voler fare la guerra», aveva obiettato.

«Sì, vero. Ma l'abbiamo pagata cara, quella guerra».

L'avevano pagata cara, sì. La sua famiglia, poi, molto più di altre. E forse non era stato poi così giusto, far ricadere sull'intero popolo la scelta di pochi, una scelta fatta da chi non poteva poi essere contraddetto. Ma era un discorso inutile, era un modo sciocco di pontificare su cose che non avrebbero potuto essere cambiate. «Ormai, non c'è modo di tornare indietro».

«Ma non va bene nemmeno restare fermi».

Erano scesi dal tram, e si erano avviati lenti verso il negozio. C'era tutta un'altra aria, a Charlottenburg. Niente sentimenti esaltanti, niente senso di appartenenza. E quasi nessuno per strada, qualche bicicletta di passaggio, un paio di persone, nient'altro. La lunga strada diritta che allontanava Berlino a ogni passo, giù, fino alla vetrina e alla porta a vetri della bottega, e alla piccola insegna di legno ben esposta. Schneider. Lebensmittel und Kolonialwaren.

GerdaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora