«Vieni con me», le aveva detto.
Con lui. Andare con lui.
Gerda aveva perfino riso. Gli aveva appoggiato la testa su una spalla, si era raggomitolata contro il suo braccio.
«Sono serio. Vieni con me».
Meyer aveva sollevato la testa dal cuscino, un po' troppo in fretta. Era buffo, senza occhiali. Quasi non sembrava lui.
E a Gerda era piombato addosso tutto insieme il significato dei suoi discorsi. La Svizzera, ancora. L'Università di Zurigo. Niente a che vedere con la scuola ebraica, con quello che succedeva in giro per le strade. Discorsi che non aveva voluto ascoltare, non davvero. Discorsi a cui aveva annuito distrattamente. Eppure reali.
«Ma perché vuoi andartene?», gli aveva chiesto.
Lui si era scosso, brusco. «Ma come? Non vedi?»
Cosa, cosa avrebbe dovuto vedere? Era ancora tutto lì, Meyer, tutto il resto. Aveva un lavoro dignitoso, uno stipendio che gli permetteva di vivere, qualche altra norma da osservare, ma erano le stesse di tutti.
«Non capisco», gli aveva detto.
Meyer aveva stretto gli occhi. «Sono rimasto così a lungo per te», aveva detto.
E non l'aveva nemmeno guardata, mentre lo diceva. Aveva guardato altrove, un punto astratto oltre la parete, oltre Berlino, oltre la Germania.
«Per me?»
«Sì, maledizione, per te. Altrimenti sarei andato via da tempo».
L'avevano colpita, quelle parole. Più del significato meno immediato, che forse non aveva nemmeno colto. Per lei. Per lei. Questo era quello che sentiva, che le suonava nella mente, nelle orecchie, nella gola.
«Ma io sono sposata», aveva detto, a voce bassa.
«E allora? Vieni con me. Non abbiamo bisogno delle formalità burocratiche. Sono solo luoghi comuni, espedienti sociali».
«E Peter?»
«Se ne farà una ragione. Non cadere anche tu vittima del conformismo. Abbandona gli schemi sociali. Vieni con me. Vivremo insieme. Avrò un buon lavoro, a Zurigo. Abbastanza di che vivere, noi due».
Le era sfuggito un sorriso. Loro due. Sì, loro due. Abituarsi a vederlo al mattino, accanto a lei. Svegliarsi con il suo odore nelle narici, con la sua figura a lato. Riordinare i suoi vestiti, ascoltarlo parlare. Lo aveva sognato tanto. Tanto a lungo.
Se lo era chiesto spesso, perché il destino fosse stato così poco clemente con lei. Perché avesse messo Meyer sulla sua strada soltanto quando ormai era già la moglie di Peter. Sarebbe stato tutto diverso, altrimenti. Di certo sua madre non avrebbe avuto nulla da ridire su un professore universitario. E nemmeno su un insegnante alla scuola ebraica, a dire il vero. Le persone studiano sempre. Gli insegnanti non muoiono mai di fame.
Sarebbe stato bello. Lì, in quel piccolo appartamento, le persiane finalmente spalancate, la luce del sole, il sole acceso di Berlino. Passeggiate fino alla Potsdamer Platz, o, come quando era ragazza, a Unter den Linden. Lei, al braccio di Meyer, serena e orgogliosa come solo una moglie felice sa esserlo. E i bambini. Sarebbero stati bellissimi, i loro bambini.
Certo, in quel momento però le cose sarebbero state diverse. Sì. Lei e Peter avevano comprato una casa grande e ricca. Peter le permetteva di comprarsi stoffe di buona lanetta, la cipria, perfino del tulle. E Meyer faticava a raccattare dalle tasche qualche pfennig per il caffè. Forse era solo un momento. Ma non dubitava affatto che con Peter le cose sarebbero andate sempre meglio. E sarebbero stati belli anche i loro bambini. Biondi, magari, con gli occhi chiari.
«Pensaci, ti prego», le aveva detto Meyer.
Lo aveva guardato tirarsi su, le mani che vibravano appena mentre sfregava il solito fiammifero contro il muro. Aveva appoggiato la testa all'indietro contro la parete, aveva aspirato con frenesia qualche boccata di fumo.
«Come faccio?»
«Prendi le tue cose e vieni con me. Io parto il prossimo martedì. Raggiungimi qui, e andiamo. Saremo a Zurigo prima ancora che Peter si renda conto di cosa succede».
Le cose. «Quali cose?»
E le era venuta in mente Esther Adler con le sue quattro valigie. Avrebbe dovuto anche lei infilare la sua vita in una valigia? Scegliere solo le cose utili, le cose necessarie, lasciando indietro tutto il resto, tutto quello che era bello?
«Non troppe. Non possiamo portare via troppo».
Anche lui, anche Meyer, così irriconoscente nei confronti dei ricordi. Ma forse era giusto. Forse avrebbero dovuto costruirseli insieme, i ricordi.
Sarebbe stata una vita diversa. Senza sua madre, senza Peter. Senza il negozio, i sacchi di farina, il burro fresco di zangola, lo zucchero da pesare. Senza la vetrina da lucidare con la carta di giornale, senza i fogli da tenere da parte per fare pacchetti. Una vita diversa, da ricominciare da capo, lasciandosi indietro tutto quello che era appartenuto alla Gerda-degli-Heine e alla Gerda-degli-Schneider.
«Libera», aveva detto, involontariamente.
Meyer aveva sorriso. «Liberi».
«Com'è Zurigo?»
«Bella. Ti piacerà».
«Avremo una casa?»
«Certo. Te l'ho detto, avrò un buon lavoro».
Era rimasta in silenzio, gli occhi fissi a una piccola crepa dell'intonaco, proprio sopra la sua testa. «Martedì?»
«Sì, martedì».
Ed era uscita in strada a cuor leggero, dopo, i capelli intrecciati alla meglio e il cuore che martellava nel petto. Le sembrava tutto confuso, tutto irreale. Tutto diverso. Le veniva da ridere, quasi, a guardare le persone che camminavano sui marciapiedi e le sembravano così lontane. Così infinitamente lontane, come se fossero già divenute parte del passato. Chissà com'erano, le persone, a Zurigo. Se indossavano gli stessi vestiti, se si muovevano allo stesso ritmo.
E dire che le piaceva così tanto, Berlino. E le piaceva anche la sua casa, adesso che era una casa vera. Tanto spazio. Delle stanze che prima o poi sarebbero servite, per i bambini. Un bel salotto, tappeti, divani. A Charlottenburg, sì, ma Berlino era vicina, molto vicina. Una manciata di fermate del tram.
Forse era tutto sbagliato. Forse non sarebbe dovuta andare.
Forse avrebbe dovuto insistere di più con Meyer, perché ci ripensasse. Cosa si aspettava di trovare, in Svizzera? Le cose non andavano più così male, in Germania. E sarebbero andate sempre meglio. Certo, Meyer non aveva mai sofferto la fame, nel periodo buio che aveva inghiottito tutto. Non si era mai trovato obbligato a imparare un lavoro non suo - o a sposarsi - per avere la certezza di poter mangiare qualcosa. Non lo sapeva, lui, cosa significava. Aveva fatto parte dell'élite, di coloro che non avevano poi sofferto così tanto quando tutto si disgregava. E voleva andarsene via al primo colpo di vento, senza la pazienza di aspettare, senza porre la benché minima fiducia in quello che stava succedendo. Hitler stava risollevando la Germania. Sì, aveva preso un pugno di macerie e aveva ricostruito un popolo.
Il cuore si era fatto pesante. Era rientrata a casa quasi piegata da quel peso insostenibile.
Era bella, la sua cucina. Tiepida e profumata come le case vere.
STAI LEGGENDO
Gerda
Historical FictionLa storia di Gerda, a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, si intreccia a quella della Germania nella transizione tra la Repubblica di Weimar e l'ascesa al potere di Adolf Hitler: un mondo che cambia, un'ideologia che si impone, una società...