Il Pensiero

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Era l'ultima volta che partecipava agli incontri della Frauenschaft.

Sì. L'ultima volta.

Poche ore, poche ore ancora. E poi sarebbe partita.

Le sembrava strano, anche quello, anche essere lì. E faceva perfino fatica a concentrarsi, a capire di cosa stessero parlando.

Non aveva mai visto Alfred Rosenberg, prima di quel momento. Lo guardava curiosa, interessata al viso dai lineamenti un po' rudi, eppure attraente. E colpita dalla smania di attenzioni di Gertrud, in piedi, fiera e composta, accanto a lui. Lo aveva presentato come una delle personalità di spicco all'interno del Partito, come uno dei più grandi intellettuali e pensatori contemporanei. E questo aveva affascinato Gerda più del resto. Le piacevano, i pensatori.

«Non dovete lasciarvi ingannare dalle menzogne dei giudei», stava dicendo. «Il loro unico interesse è la contaminazione della razza ariana! Vivono tra noi da centinaia, da migliaia di anni, e cosa pensate che abbiano fatto? Hanno conservato la loro razza, prendendo le nostre donne e tenendosi ben strette le loro. Hanno contaminato la nostra razza, perché il loro fine ultimo è asservirci, eliminarci, schiacciarci!»

Contaminare la razza, aveva scritto Gerda.

Meyer. Meyer non parlava mai di razze.

«Gli ebrei fanno parte di una congiura mondiale. Una congiura! Desiderano controllarci, dominarci, renderci schiavi. Hanno approfittato in passato della nostra fede, hanno fatto sì che diventassimo dipendenti da loro. Noi, per via delle nostre radici cristiane, non potevamo prestare soldi per interessi. Loro sì. Ci hanno prestato soldi, e ci hanno resi schiavi. Loro non hanno mai sofferto per la fame, per la disoccupazione, per l'inflazione. Loro hanno speso i nostri soldi!»

Congiura mondiale, aveva scritto Gerda.

Era vero. Meyer non aveva sofferto. Meyer si era tenuto il suo lavoro, il suo salario. Non aveva dovuto svendere l'argenteria di famiglia per comprarsi il pane. Non aveva visto suo padre impiccarsi per sfuggire al disonore. Non era tornato macilento dalla guerra, non aveva difeso il Paese che gli aveva dato così tanto.

«I tedeschi devono riprendersi ciò che è loro. Le terre, in campagna, le case, in città. Le fabbriche, le banche, i negozi, le scuole. Ciò che è tedesco deve appartenere ai tedeschi!»

Riprenderci ciò che è nostro.

Come la loro casa. Come il loro negozio. Cose che erano loro.

Voleva strapparla via dalla Germania. Contaminarla. Voleva portarla via dalla sua patria, dal posto che l'aveva vista venire al mondo. Il posto dove aveva sofferto - perché sì, aveva sofferto - ma dove aveva sofferto insieme a tanti altri. L'avevano condivisa, la sofferenza. Lei e la folla che adesso si esaltava e si ammassava lungo le strade per accogliere il passaggio di Adolf Hitler. Lei era parte di qualcosa. Lei faceva la sua parte.

E Meyer non l'avrebbe mai capito, questo. Era sempre stato distante da tutto, lui, i suoi pensieri, le sue parole sulla società e su ciò che lo circondava. Si era lasciata convincere dalle parole, e dire che le aveva sempre trovate vuote. Era caduta vittima di un uomo malato di autocommiserazione. Un uomo come suo padre, incapace di reagire al destino avverso; e peggiore di suo padre, perché privo anche dell'ultimo briciolo di amor proprio. Un uomo che fuggiva, invece di restare.

Aveva pensato alle poche cose che aveva preso dagli armadi e aveva nascosto in un fagotto sotto il letto, le poche cose che aveva scelto, gli unici ricordi della Gerda-degli-Heine e della Gerda-degli-Schneider che aveva deciso di portare con sé in Svizzera. E un senso di nausea l'aveva assalita - nausea nei confronti di se stessa, del suo essere, della sua incapacità di comprendere. L'aveva quasi convinta. L'aveva circuita. Le aveva fatto credere di amarla, di volersi prendere cura di lei, senza spiegarle la verità, senza ammettere di essere un vile, un codardo.

«All'ebreo non importa il destino della Germania. Sono peggiori dei disfattisti. I disfattisti vedono solo le cose negative, mentre gli ebrei ne godono. Hanno approfittato della crisi per arricchirsi alle nostre spalle, per comprare i tesori di famiglia che molti hanno dovuto vendere per mangiare, per prestare soldi con interessi da strozzini. Sapete chi fa così? L'ho visto fare con i miei occhi, in Russia, durante la Rivoluzione. Io ero lì, sapete, e ho visto! Anche in Russia fanno lo stesso, gli ebrei. Un complotto mondiale!»

E dire che aveva pianto, pensando a ciò che avrebbe lasciato. Un senso di oppressione e ansia, che non le permetteva più di sentire la dolcezza del tappeto sotto i piedi o il tepore consolatorio della cucina. Il dolore di dover lasciare cose che contavano così tanto, per lei, proprio perché desiderate a lungo, inseguite con forza. E a Meyer non interessava, questo. Pensava a sé, alle sue prospettive, a ciò che lo attendeva. E le mentiva, la lusingava, perché voleva lasciare la Germania da vincitore, portando via con sé una preda preziosa.

Le bruciavano gli occhi.

Le sembrava di essere stata cieca. Cieca e sorda e muta. Incapace di vedere dietro la superficie delle cose, dietro la loro apparenza. Vedeva soltanto i suoi errori, l'ingenuità con cui era caduta tra le braccia di Meyer, con cui aveva creduto a ogni sua parola. Sciocca, era stata. Sciocca e folle, talmente folle da rischiare di mettere a rischio la sua esistenza per qualcosa che in realtà non era mai esistito.

Difendere la Germania, aveva scritto.

«Riesce sempre a cogliere l'essenziale, signora Schneider», le aveva detto Gertrud, un sorriso largo, gli occhi brillanti. «Bravissima, bravissima».

E il suo primo pensiero, rientrando a casa, era stato correre nella sua stanza per disfare il fagotto sotto il letto. Aveva tirato fuori con le mani che tremavano le cose che vi aveva riposto. La fotografia della sua famiglia, di quando lei era bambina. Qualche vestito. La piccola scatola dorata della cipria.

GerdaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora