Capitolo 5: Incubo

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Amy guardava il corridoio del terzo piano dell'orfanotrofio come se non l'avesse mai visto prima; il lungo tappeto, i quadri appesi ai muri con le loro cornici stravaganti, le tende che coprivano le grandi finestre e altre che le lasciavano scoperte, un aspirapolvere abbandonato accanto ad una parete, un piccolo bonsai adagiato su un davanzale ombreggiato, era tutto così nuovo e così bello agli occhi verdi della piccola orfana. «Quello non c'era quando sono arrivata» disse, e col dito indice indicò un dipinto di natura morta.

Blanca storse il naso; non era appassionata di pittura, tuttavia i pochi quadri che catturavano la sua attenzione non appartenevano a quel genere – piuttosto un grande campo fiorito dove gli animali a quattro zampe correvano, rincorrendosi delle volte, danzando tra le api e il polline.

«Che poi, perché si chiama così?» continuò la solitaria. «I fiori e la frutta sono vegetali. Non fanno le stesse cose delle persone e degli animali, ma hanno le cellule viventi. Perché allora si chiama natura morta e non natura viva?»

«Si chiama natura morta perché i soggetti sono stati tolti dal loro ambiente naturale.»

Le due bambine si girarono per vedere chi, alle loro spalle, avesse parlato; un bambino dalla chioma albina era uscito da una delle stanze, tenendo sottobraccio una scatola grigia rettangolare. Le stava scrutando con occhi privi di emozione, e alcuni capelli glieli coprivano.

«Near!» esclamò Blanca, felice di vederlo seppur sarebbe dovuta essere arrabbiata con lui per essersene andato senza dire nulla la sera precedente – ma, ormai, per lei era acqua passata. «Ciao!»

«Ciao.»

Amy osservò l'orfano: non l'aveva mai visto, dalla finestra di camera sua, in cortile a giocare con gli altri bambini; non sembrava un amante dei giochi all'aria aperta, a giudicare dalla damiera contenuta nello scatolo che stava trasportando – il nome del prodotto era ben leggibile. Balbettò un saluto.

«Tu chi saresti?»

«Lei» rispose Blanca, «è la mia compagna di stanza. Si chiama Amy.»

«Piacere di conoscerti» fece Near, per poi andarsene senza dire una parola.

«Scusalo, è che...»

«Non importa. Andiamo.»

Scesero le scale, ed Amy rischiò di inciampare per due volte, e negli altrettanti momenti incolpò la propria sbadataggine, promettendo all'altra di fare maggiore attenzione a dove avrebbe messo i piedi da allora in avanti; Blanca faticò a crederle, ma evitò di dirglielo. Giunsero al piano terra e, di conseguenza, nell'atrio, popolato da adolescenti addossati ai muri perché troppo svogliati per tenersi in piedi da soli, intenti a parlottare tra loro di argomenti che Blanca definiva per adulti.

«Quando sono arrivata» disse Amy, «qui era tutto sporco di neve e impronte. Proprio lì sono scivolata, ma non sono caduta perché zio Watari mi ha preso al volo.»

«Perché dici che il Signor Watari è tuo zio?» chiese l'altra.

«Gli ho chiesto se voleva esserlo, e lui ha detto sì.»

«Non ha molto senso.»

«Per me lo ha» rispose Amy, continuando a camminare affianco a Blanca. Varcarono la soglia della porta principale, e la solitaria si aggrappò al passamano per scendere i pochi gradini che le stavano davanti, i quali la stavano sfidando ad oltrepassarli senza restare ferita. Lo spazio anteriore adiacente all'edificio era ombrato, buio per via del sole calante dal versante opposto della proprietà; se le due bambine avessero sollevato la testa al fine di guardare il cielo, avrebbero sicuramente scorto la luna lattea nascosta parzialmente dal chiarore del cielo crepuscolare.

La Casa dei Bambini PerdutiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora