CAPITOLO 11

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"Ma le cose, dentro di noi, sono sempre maledettamente complicate; e tanto più inganniamo noi stessi, o tentiamo, quanto più evidente e immediato si prospetta il disinganno."
( Leonardo Sciascia )



Sospiro nell'aria fresca di Tijuana, la principale città del Messico, situata nella Bassa California.
Cammino lenta ma decisa, con un solo pensiero fisso in testa: è la mia penultima missione. Mi basterà poi uccidere Derrick ed Hiram, e finalmente Ermak sarà libero.
Ermak sarà libero.
Ermak sarà libero.
Ermak sarà libero.


Sospiro e carico il mio AK-47, o più semplicemente conosciuto come kalashnikov. Mi accerto che il mio M16 sia posizionato alle mie spalle, pronto ad essere utilizzato qualora gli spostamenti fossero troppo veloci e le distanze troppo ampie.
Mi posiziono dietro il furgone nero, Jordan è alla mia sinistra, mentre Sonia è già pronta a schizzare via come un fulmine non appena completato il lavoro. O non appena saremo morti.
L'eventualità esiste, anche se a Conrad non sembra sfiorare l'idea.
Questa è una di quelle missioni in cui potrei restarci secca nel primo mezzo minuto di combattimento.
Saranno almeno in sette, noi solo in due, con l'aiuto di Sonia dall'furgone.
Per Conrad non era opportuno inviare qualcuno di inesperto in una missione simile, ma il miglior addestratore e la sua migliore agente, sì.
Vorrei restarci secca solo per vedere come avrebbe intenzione di portare avanti quella che lui stesso definisce "squadra" ma che non ha nessun spirito di squadra. Ognuno per sé. Ognuno per la propria salvezza.

"In posizione." Sussurro con decisione.
Jordan mi ha fatto da addestratore e tutt'ora continua ad addestrare i giovani sicari, ma in missione, su decisione di Conrad, ci sono io al comando.
Ritiene che la mia sete di vittoria e la mia dedizione, determinazione, la mia assenza di cuore, di compassione, siano gli elementi migliori per poter stare al comando.
Jordan, per un certo periodo, ha intrattenuto una storia con un'agente. Cosa del tutto lecita, purché non influenzi il lavoro di nessuno dei due.
Conrad ha costretto Jordan a prendere una decisione, lui ha scelto il lavoro, ma da allora non si fida più ciecamente di lui.

Alcuni membri dei "Los Ceros" arrivano per lo scarico di droga, il furgone, simile al nostro, accosta a qualche metro di distanza.
Miguel García, uno dei migliori alleati dei Los Ceros, è già pronto con fucili d'assalto mentre i suoi scagnozzi scaricano la droga.

Con una coordinazione super efficiente, Jordan ed io carichiamo il fucile e miro bene il viso di Miguel García, è lui il mio obiettivo principale. Gli altri, su detta di Angel López, possono anche svignarsela sani e salvi, l'importante è che arrivi il messaggio.
In effetti Angel López ha bisogno di farsi spazio tra gli affari, o ci perderà parecchio. E l'unico modo per farlo, è creare un'alleanza con i Los Ceros, che però hanno rifiutato. E, ovviamente, lui ha pensato bene di costringerli ad accettare.
Mi sembra del tutto normale.

Tiro un grande sospiro, poi conto.
"Tre" Fisso la presa con la mano destra e tengo il calcio del fucile fermo sotto l'ascella del braccio che spara.
"Due" Controllo la linea di mira naturale, poi allineo la mira del fucile. Controllo la visuale d'insieme, perché un colpo ben mirato implica che la visuale anteriore, l'apertura, il bersaglio e l'occhio siano allineati perfettamente.
"Uno" Mi assicuro della mia respirazione.
"Via!" Infine, premo il grilletto.
Un colpo secco, al centro della fronte. Poi un altro, verso la gola. Un altro ancora, verso il cuore. L'altro, sul polmone destro. Tutto in meno di quindici secondi.
Corro al riparo subito dopo, perché i Los Ceros iniziano a sparare all'impazzata.
Jordan aveva il compito di coprirmi le spalle, ma nessuno dei due immaginava che dentro l'edificio abbandonato ci fossero altri tre scagnozzi. Certo, eravamo pronti all'eventualità, ma non così ampia.

"Viky, ti copro io. Vai!" urla dall'altro capo del furgone.
Sonia nel frattempo ci raggiunge, perché gli spari hanno iniziato a conficcarsi anche nei vetri.

"Ok, ci muoviamo. Sonia tu resti qua. Jordan, tu a sinistra io a destra. VIA!" urlo.
Usciamo allo scoperto, cercando però di tenerci al riparo tra gli alberi. Ma i colpi sono troppi, e loro anche. Riesco a percepire il terrore negli occhi dei scagnozzi ma anche la voglia di vendetta, le urla coprono tutto il resto. E per la prima volta, nella mia vita, ho paura di morire.
Inizio a sparare alla cieca, ovunque e su chiunque. Non bado ai colpi mortali, non bado alla precisione ma solo a pararci il culo. E continuo così, accompagnata da Sonia e Jordan fin quando non vedo tutti a terra, fin quando non sono sicura di aver fatto tutti a fette.
Fino a quando due occhi neri sono fermi nei miei.
Un uomo dei Los Ceros, ferito, disarmato, a terra.

"Ti prego, risparmiami. Ho una famiglia.. Ho una bambina di tre mesi..." i miei occhi corrono alla sua mano e alla fede d'oro che porta all'anulare sinistro. Poi incontro i suoi occhi, impauriti e sinceri, così tanto distanti da me anche se sono a mezzo metro.
Ma una sensazione strana al petto mi fa retrocedere. Non so come classificarla, non so cosa sia, ma so che fa male.
E nonostante non abbia armi, la paura di morire, continua ad opprimermi.
Io non ho paura di morire. Almeno fino a prima d'oggi, non ne ho mai avuto.
Eppure adesso la mia mente riesce a correre solo a due pensieri: Ermak ed Hiram. E la cosa snervante è che Hiram c'è sempre.
E' nella mia testa. Anche qui, anche adesso che potrei rimetterci la pelle.

"Viktorya!" urla Jordan.
L'uomo afferra la pistola che aveva nascosto dietro i pantaloni e me la punta contro, ma io non riesco a muovermi.
Ho paura di morire ma la paura di vedere i suoi occhi chiudersi, davanti ai miei, è peggio.
Poi uno sparo.
L'uomo cade a terra, inerme, stringendo il pugno con la fede a incorniciare l'anulare sinistro.

Ansimo e provo a prendere aria, ma manca. Manca l'aria e manca la ragione. Dov'è finita la mia ragione? Dov'è finita la mia freddezza?
Da quando provo compassione?

"Stai bene?" mormora Jordan in affanno.
Annuisco, ma non è vero.
I miei occhi sono fissi su quell'uomo a terra, fissi sull'orrore che creiamo. Fissi sul dolore.

"Sto bene." Mormoro, ma non faccio altro che mentire.
Non sto bene affatto. Chi starebbe bene dopo aver rovinato una vita, una famiglia? E non ne ho rovinata solo una, ma centinaia... Centinaia di vite.

Entriamo in auto, in silenzio.
Sonia ci ha fatto spazio tra i vetri rotti ma un altro furgone ci aspetta un po' più distante dagli edifici abbandonati.
Nessuno dei tre parla.
Nessuno si esalta, nessuno gioisce, se non sono io a farlo.
Nessuno menziona il mio momento di cedimento.
Nessuno fa caso al mio sguardo vuoto o, almeno, se lo fanno hanno la decenza di non farmelo notare.
Una volta alla Sebak non proferisco parola, né mi intrattengo con saluti e persone inutili.
Mi infilo in auto e corro a casa. Nella mia casa.
Corro a rifugiarmi dal mondo.
Ho bisogno di un posto tutto per me. E anche se al mondo non ho mai avuto un posto in cui ritornare, so per certo dove vorrei essere adesso.
E mi devasta dover ammettere che l'unico posto in cui vorrei essere è il solo che dovrò annientare.
Le braccia di Hiram sono il mio posto caldo, sicuro. Il mio rifugio dal mondo, molto meglio del buio sotto le coperte.
Con Hiram avrei voglia di camminare ad occhi aperti anche negli inferi.
E come se avesse sentito una mia preghiera lontana, non urlata, né pensata, come se sapesse perfettamente di cosa ho bisogno, me lo ritrovo seduto davanti al portone, con lo sguardo rivolto esattamente verso di me.
Il suo corpo diventa teso alla mia vista e mi raggiunge con due falcate lente ma decise.

"Hiram" lo abbraccio. Non chiedetemi perché lo stia facendo perché in quel caso dovrei chiederlo prima a me stessa e non sono pronta a nessun tipo di risposta.
Stringo il suo corpo al mio più forte che posso, meglio che posso, ma capisco che c'è qualcosa che non va quando l'abbraccio non è ricambiato allo stesso modo.

"Ermak Volkov non è un semplice amico, questo è chiaro." Mi sposta in modo tale da avere i miei occhi nei suoi. "Quindi, te lo chiederò una sola ed ultima volta, chi è Ermak Volkov?"

Vuoto.
Il vuoto totale.
Tutto quello che la Sebak mi ha sempre insegnato, la riservatezza, l'accortezza, la discrezione, la sicurezza dell'agente e di tutti gli altri prima di tutto... tutto buttato all'aria.

La compassione.
La gentilezza.
La bontà.
Cedere.


Erano cose da evitare. Avrei dovuto semplicemente attenermi al piano. Avrei dovuto mentire meglio, studiare quei maledetti fascicoli, evitare incontri simili. Utilizzare le case assegnatemi. Avvisare Conrad che anche Hiram è invischiato in tutta la questione... avrei dovuto comportarmi come un vero sicario, e ho fallito.
Ho fallito nella missione più importante, quella che doveva rendere Ermak libero.

Osservo gli occhi di Hiram, pieni di preoccupazione ma al tempo stesso pieni di speranza. Conosco già quello sguardo, l'ho visto ogni volta alle mie vittime quando capivano che io non ero chi ero. Non ero la persona con cui credevano di aver dormito. E anche se Hiram non è arrivato a quel punto, anche se ha solo capito una piccola percentuale di quello che c'è sotto, io mi sento allo stesso modo.
E improvvisamente la sensazione strana allo stomaco torna a fare capolino, mi chiedo se mi abbia mai lasciata da oggi pomeriggio.
Vorrei reprimere il senso di nausea e di vuoto che mi assale, il batticuore incessante e il bruciore forte agli occhi. MA riesco solo a sospirare.

"E' lui, vero? E' quel tuo ex della Russia?" chiede furioso.
E' questo? Tanti anni di giornalismo e paparazzate e questo è il meglio che è riuscito a ricavare?
Mentalmente caccio un sospiro di sollievo, ma la terribile sensazione al petto non va via.
Non andrà mai via.
Mai più.

Annuisco, perché non ho alcuna scelta.

"Siamo rimasti in buoni rapporti, tutto qui." Provo a spiegare, ma il suo sguardo resta cupo, e questo non mi piace.

Vorrei poter entrare nella sua testa e leggere nei suoi pensieri, vorrei sapere se mi crede ancora così perfetta. Vorrei sapere se si fida ancora di me, perché in questo momento sento di averne così bisogno.
Ho così bisogno di un suo abbraccio, di una sua carezza, del suo respiro sulla mia pelle, che potrei mettermi ad urlare.
Hiram mi sta privando di ogni briciolo di lucidità che ho. Mi sta privando di tutto, e questo sarà una rovina.

Non dovevo affezionarmi, questa è una delle regole principali. Come ho potuto perdere di vista l'obiettivo? Come ho potuto tenere all'oscuro la Sebak di metà degli affari dei Campbell. Come ho potuto?

Hiram tocca nervosamente il mento lasciando scivolare su e giù la mano, segno che sta pensando.
Mi avvicino di qualche passo ma lui arretra.
Arretra dalla sua Sydney.
Hiram arretra da me.

"Perché mi hai mentito? Avresti dovuto dirmelo fin da subito." Sentenzia.

"Volevo farlo, ma ogni volta non mi sembrava il momento giusto. Non volevo che ti preoccupassi... Mi dispiace così tanto."

Hiram ridacchia e sbuffa "Non ti sembrava il momento giusto? Bastava dire la verità quando te l'ho chiesto, settimane e settimane fa!" scuote il capo e la sua espressione è un cumulo di tensione e nervosismo. E sono io ad averglielo causato.

"Mi dispiace, Hiram, credimi. Ma non roviniamo il nostro rapporto" provo a sistemare le cose, ci provo perché la missione deve andare avanti, lo devo a mio fratello.

Il suo sguardo non nasconde un pizzico di disprezzo ed io vorrei tanto maledirmi. "Ci hai pensato tu a farlo, non io." Scuote ancora il capo e poi si avvia verso l'auto. "Ho bisogno di un po' di tempo da solo. Ci vediamo a lavoro."

Non mi saluta.
Niente baci della buonanotte che durano ore. Niente abbracci attorcigliati. Niente carezze e niente Pash.
Niente di niente.

Resto qui fuori a guardarmi le mani e a maledirmi. A chiedermi cosa fare per averle su di lui e non sentirmi così sola.
Me ne resto qui fuori forse per ore, forse tutta la notte, e nonostante il leggero freddo che mi percuote il corpo, le nuvole che minacciano un gran temporale, io riesco solo a guardare il vuoto che mi circonda. Perché il freddo che ho dentro è più forte, è più potente.
E mi rendo conto che la vita non aspetta nessuno.

Stasera puoi andare a letto triste, disperata, col cuore in frantumi, devastata. Puoi andare a letto e sapere di aver ucciso ancora, o andare a letto e sapere di aver perso qualcuno a te caro... ma domattina il sole sorgerà comunque. Gli uccelli canteranno lo stesso, l'alba arriverà. E anche quella del giorno seguente, e quello ancora. Tutto va avanti. Siamo noi ad essere fermi.
E per la prima volta, in vita mia, mi preoccupo per il giorno dopo.

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