Conobbe il proprio destino un martedì sera.

Gli venne incontro a passo lento, gli abiti trasandati e stropicciati dal lungo viaggio, la testa china, le spalle curve, piccolo nella sua figura di giovane uomo, minuto accanto alle guardie che lo affiancavano.

Aveva le mani giunte, unite: non poteva muoverle a causa della corda che gli era stata stretta attorno ai polsi, ma c'era un qualcosa, in quel suo tener intrecciate le dita, che faceva pensare ad una sorta di rassegnazione, di pace costretta, forzata, l'ingenua spavalderia di chi ormai è a conoscenza del proprio avvenire ed ha deciso di lasciarselo cadere addosso, in silenzio e ad occhi chiusi.

Gli occhi del ragazzo erano spalancati.

Gli scivolarono addosso non appena le tre SS che lo scortavano si fermarono, accompagnando il loro arrivo con un'escalamazione, un saluto cui lui - ormai più per abitudine che per vero rispetto - rispose immediatamente.

Jude, pensò, abbassando il proprio sguardo di superiore diffidenza sul detenuto. Ebreo.

Fu esattamente in quell'istante, a metà fra il pensiero e la rapida occhiata, che avvenne.

Lui non sapeva cosa, di preciso, fosse successo, ma capì -o almeno intuì - di essere stato toccato, sfiorato da una mano invisibile, prima sulla fronte e poi giù, al centro del petto.

Erano stati gli occhi, quelli del ragazzo: lo avevano inchiodato, congelato in tutta la loro fredda solitudine, lo avevano fissato con una serietà disarmante e gli avevano rivelato tutto ciò che quelle due lastre di ghiaccio provavano, ed erano disposte a provare.

Odio.

Odio, nella sua forma più cruda e spietata.

Infastidito, l'ufficiale fece una smorfia e distolse il proprio sguardo da quello troppo sincero del giovane, per spostarlo sul volto dell'uomo che gli stava di fronte; non furono necessari comandi o spiegazioni di alcun tipo, conosceva il suo compito e la procedura da seguire. Afferrò l'estremità della corda che l'altro gli stava porgendo, congedò le guardie con un cenno del capo e poi s'incamminò verso l'edificio prestabilito tirando con sè il ragazzo.

Una volta dentro si girò e, con movimenti meccanici, bruschi, iniziò a sciogliere il nodo che sapeva essergli stato fatto non appena aveva messo piede giù dal treno; ora come durante il breve tragitto che avevano appena percorso, Harold si sentiva quegli occhi d'argento puntati addosso, accusatori, come se, così facendo, il ragazzo sperasse di potergli nuocere in qualche modo.

Lui continuò ad ignorarlo.

"Spogliati" ordinò quando ebbe finito "Indumenti di lana da un lato, tutto il resto da un altro. Le scarpe dalle a me"

Silenzio.

Nessuna domanda, nessuna protesta, nessun tentativo di ottenere una qualsiasi, misera spiegazione: solo freddo, duro silenzio, silenzio ed un'ubbidienza istantanea dell'ordine impartitogli; come un automa, con gesti fiacchi, il detenuto si tolse uno ad uno i vestiti, dal largo maglione che gli faceva da schermo esterno, alle mutande bianche che poco lasciavano all'immaginazione.

Non che ce ne fosse stato il bisogno, di immaginare.

L'ufficiale fece scorrere rapido il proprio sguardo sul quel corpo nudo, esile ma con le giuste curve, quasi femminile: bianco; aveva la pelle del candore e della purezza di un angelo, immacolato, tanto vergine quanto seduttore.

"Bene" disse, un retrogusto acre che, dalla punta della lingua, andò a finirgli nella voce. "Aspetta qui"

Raccolse quei pochi averi da terra e in fretta uscì, non curandosi di chiudere la porta.

Come rose nella neveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora