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Il suo destino si chiamava Louis.

Lo scoprì per caso, diversi mesi dopo la sua deportazione nel Lager, e in un primo momento ad Harold sembrò persino strano, che quel ragazzo avesse un nome.
Ad essere sinceri non ci aveva mai pensato prima; non ce n'era stato bisogno: trovandosi sempre a contatto con lui, non si era mai dovuto porre il problema di come avrebbe dovuto chiamato.

Louis.

Tipicamente francese, raffinato ed elegante.

Gli piaceva.

Iniziò a ripeterlo fra sè, sorridendo, "Louis, Louis", senza alcun motivo apparente o bisogno reale: solo per il gusto di averne la bocca piena, sentire come suonava se detto ad alta voce.

Immaginare come sarebbe dovuto essere sussurrarlo piano contro la sua pelle.

"Louis", un bacio.

"Louis", un cuore che tornava a battere.

Era palesemente ubriaco, ma non avrebbe barattato quel piacevole tepore nel petto e quel senso di leggerezza per nulla al mondo, neppure per un libro.

Dio come gli mancava leggere.

Lì al campo, il massimo che avrebbe potuto trovare per alleviare il bisogno della sua mente era un manuale sulla sopravvivenza al fronte.

Quatsch, sbuffò. Tutto un mucchio di idiozie.

Aveva camminato per svariate decine di minuti, barcollando in qua e in là per il tragitto che univa il suo blocco all'edificio delle SS, e ora gli era calata addosso una voglia improvvisa di dormire: se avesse potuto si sarebbe sdraiato proprio lì, in mezzo alla neve, e avrebbe dormito.

Ma il rumore ovattato di voci che, a poca distanza da dove si trovava lui, sussurravano, confabulavano nel più cheto dei modi per evitare di essere scoperte, lo trattenne dal mettersi realmente steso a terra e lo fece girare verso la direzione cui quel losco parlottare giungeva; in punta di piedi raggiunse l'edificio -un magazzino non ancora adibito all'utilizzo - e vi si affacciò oltre per cercare di capire di cosa si trattasse.

Nonostante il buio della notte, riuscì a contare tre uomini, tre detenuti, due dei quali gli volgevano le spalle; l'altro, quello girato di faccia, se ne stava leggermente curvo e parlava ad un qualcosa che l'ufficiale non era in grado di scorgere.

Riconobbe però l'accento rozzo dell'uomo che aveva negato al ragazzo la propria razione di zuppa.

"Vorrei proprio sapere come ci resiste il tedesco, di fronte ad un faccino così grazioso" stava dicendo. "Ma guardatelo: quattro mesi in Lager, e sembra ancora una fatina dei boschi"

Quel qualcosa, tremante e nudo, tenuto fermo con la forza dai due farabutti, era Louis.

Harold sentì la bile raschiargli amara il fondo della gola: quelli non erano uomini, erano vermi.

"Muoviamoci ragazzi, prima che cambi la fottuta guardia" li incitò il primo.

Avanzò nell'ombra come una furia, il sangue che gli ribolliva nelle vene e le mani chiuse a pugno: ogni traccia della sbronza era sparita, e lui si sentiva fin troppo lucido.

Avrebbe voluto ucciderli tutti e tre, uno dopo l'altro, senza preoccuparsi poi di nascondere i corpi.

Avrebbe potuto ucciderli.

"Was ist los?" si limitò invece a chiedere.

Rimase sorpreso dal tono fermo in cui era riuscito a far uscire la propria voce.

Vide il Kapo impallidire e diventare dello stesso colore della neve che ricopriva il suolo, e la paura fu tale che aprì la bocca, ma non rispose.

Come rose nella neveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora