Capitolo 2

31 0 0
                                    

CAPITOLO 2

«No. Non erano questi i programmi. Harry doveva avere questi giorni per sé, non avrebbe dovuto avere impegni.»

La voce di Gemma lo fece svegliare di soprassalto. Era talmente alta che gli arrivava chiara dal salotto nonostante la porta della sua stanza chiusa. La sentiva, agitata e arrabbiata, e se la immaginò fare avanti e indietro davanti alla portafinestra che dava nell'ampio giardino in cui sua madre piantava fiori colorati.

Si alzò svogliatamente, consapevole che il cattivo umore di sua sorella fosse connesso a qualcosa che lo riguardava, e s'infilò in bagno per farsi una doccia calda. L'acqua gli scivolò addosso portandogli via l'intorpidimento del sonno, ma non gli diede la giusta carica necessaria per affrontare l'uragano che lo aspettava in cucina non appena ci mise piede.

«Dimmi che non sono io la causa di quella rabbia.» disse sulla difensiva, afferrando un pacco di cereali dalla credenza e una tazza dal porta stoviglie sopra al lavello.

Sua sorella gli rispose con un grugnito. Aprì il frigo e gli porse il latte come una sorta di segno di pace. Harry tirò un sospiro di sollievo e si abbandonò nella sedia pronto a fare colazione.

«Devi uscire con Camille questa sera.» furono le parole concise di Gemma, poggiata a palmi aperti sul tavolo come se si stesse reggendo adesso.

Harry la osservò per qualche minuto, indeciso se iniziare ad urlarle contro o mettersi a piangere. «Stai scherzando?» fece dopo un po'.

La sorella scosse la testa. «Mi dispiace, Haz, davvero. Ma il management vuole le foto prima del concerto di dopodomani, per creare voci e non ho potuto fare niente per convincerli a lasciarti libero.»

Passarono minuti di silenzio in cui Harry non trovò nulla da dire. Sentiva la gola bruciare per il nervoso, lo stomaco attorcigliato in una morsa soffocante. Avrebbe voluto urlare, ma sapeva che sarebbe stato inutile, non avrebbe risolto nulla rovinandosi le corde vocali con grida furiose.

«Haz-»

«Lascia perdere, Gems.» la interruppe il fratello, alzandosi. Rimise tutto ciò che aveva preso per la colazione a posto, lo stomaco ora chiuso per provare ad ingerire qualcosa. «Vado nella mia stanza, chiamami quando dobbiamo uscire.»

«Dobbiamo uscire stasera, poco prima di cena. Hai il pomeriggio tutto per te, per fare quello che ti pare.» cercò di tirargli su il morale lei, con il solo risultato di riceve un'alzata di spalle come risposta.

Harry uscì dalla stanza con le spalle curve e il viso basso. Si sentiva stanco, ma non nel corpo, era la sua mente a sentirsi stremata. Avrebbe voluto spegnere tutte le voci che sentiva e che non facevano altro che dargli ordini e dirgli come doveva comportarsi, come doveva essere. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie come un bambino ed isolarsi da quella vita finta che si era costruita intorno a lui. Non ricordava nemmeno l'ultima volta che aveva fatto qualcosa per sé stesso: da quando era diventato famoso l'unica cosa che importava per il suo management era che facesse soldi. Non che esprimesse sé stesso come voleva, non che la sua musica fosse vera e sincera, solo che li rendesse ricchi e li facesse spiccare. Harry era una bambola nelle loro mani e lui si sentiva svuotato del suo essere.

Un bussare alla porta della sua stanza lo fece girare nel letto, senza però alzarsi. Sua madre fece capolino nella stanza, un sorriso dolce nel viso. Senza dire nulla si sedette accanto a lui e gli prese il capo nelle gambe. Gli accarezzò i capelli lentamente, con i gesti gentili di una mamma premurosa. Senza nemmeno rendersene conto, Harry iniziò a piangere. Fu un pianto silenzioso e stremante. Pianse per quel sé stesso che stava perdendo, pianse per la finzione che avrebbe dovuto mettere in piedi. Pianse come non gli capitava da tempo, e sua madre lo strinse forte e gli sussurrò che sarebbe andato tutto bene.

Just take my pain awayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora