Nessuno deve sapere

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"The warden threw a party in the county jail. The prison band was there and they began to wail."

"Il direttore organizzò una festa nel carcere della contea.
La band della prigione era lì e iniziarono a urlare."

Esattamente così inizia Jailhouse Rock, brano dell'amato Elvis Presley, famoso musicista statunitense, noto come il Re del Rock and Roll o Elvis il bacino. In ogni caso... Ascoltavo questa canzone su una panchina, nei pressi di un negozio di dischi che l'aveva avviata, con le lacrime agli occhi.

Strano, no? Quando una persona è triste, è arrabbiata, le musiche movimentate o vivaci dovrebbero solo dare sui nervi.
E in effetti quella canzone mi dava sui nervi.
Mi infastidiva. Eppure c'era qualcos'altro che poteva farlo di più. E dovevo sentire qualcosa, una qualsiasi. Dovevo accettarmi che dopo tutto quello schifo infiltratosi nelle orecchie riuscivo a sentire almeno il cuore battermi, i numerosi mille battiti di come quando si corre senza respiro.

Non fu così.

Al contrario, sentii il gusto di un liquido salato impregnarmi il volto, sentii le scosse dei terremoti che provocavano un odioso tremolio al corpo, sentii la pioggia che alleggiava superbia nell'aria, pronta ad accogliere un temporale.

Ero morta? No, non lo ero e mi domandavo quando sarebbe successo.

Sapevo con certezza che quella mano chiusa in un pugno, contenuto nelle dodici costole all'interno di quelle che nientemeno è la struttura di me stessa non dava segni di vita.

No, era immobile. Completamente.

Il 4 ottobre del 2017 avevo preso una decisione grazie alla adorata Jailhouse rock. Non aveva senso quella canzone in fondo. Come in fondo non avevano senso gli altri affari che occupavano la mia vita.
Ritornai a casa nel tardo pomeriggio, forse le otto, dopo giocato sull'altalena, sì, quella dove andavo da bambina e preso un caffè, bello amaro, bollente per riscaldarmi il naso e riscuotere la gola che non aveva proferito suoni e, quindi, secca.

Salii le scale fino al quarto piano di quel condominio.

Non lo dissi quel mio abituale "sono a casa": avevo la voce scossa, il tono inclinato e sapevo che potevano accorgersi della mia presenza dal semplice chiudersi della porta un po' aggressivo. Dopo aver evitato in tutti i modi le mie sorelle intente a sbraitarsi contro, lanciai un'occhiata alle spalle di mia mamma che cucinava spensierata la nostra cena mentre mio fratello guardava i cartoni. Mi diressi normalmente in camera mia con la schiena dritta, fingendo di canticchiare, di essere persa nelle nuvole quando non ero che persa nei miei problemi. Ma quello era l'unico piano, l'atteggiamento credibile per non lasciare sospetti.

Iniziai a scrivere.

Ogni volta che stavo male c'era quella soluzione: io scrivevo. Al contrario di ascoltare musica ad alto volume, leggere un libro e rintanarsi in un angolino. Perché io non piango, io scrivo ed ho questo incondizionato bisogno di farlo.
Di sfogarmi con un foglio o con una cartella del mio computer non aveva importanza. Le persone non sono come la carta.

Scrivere è stato l'unico mezzo, un appoggio di quando volessi rompere qualcosa e mi sentissi crollare come acqua, come la terra che ti promette che non sarà per sempre sotto ai tuoi piedi. Ero sempre stata così. Odiavo far pena alla gente, soprattutto farmi consolare. Da piccola mi accusavano che facevo la vittima per guadagnarmi attenzioni, mi rimproveravano di essere falsa, finta, debole. E odiavo essere definita debole. Risultato? Smettere di aprirmi. E avere aculei se qualcuno mai dovesse permettersi di toccarmi, come nell'eleganza del riccio.
Quel giorno stavo scrivendo una shorts su Wattpad, una piattaforma che ti permette sia di scrivere storie che di leggerne altre.

Era incentrata sulle lacrime e un amore perduto. Non avevo espresso i nomi dei protagonisti, loro potevano essere chiunque, persino i lettori stessi, ma avevo caratterizzato e analizzato il loro comportamento e i loro aspetti psicologici. La particolarità dello scrivere shorts è che nel proprio piccolo, anche se non puoi dedicarci molto, tu hai la necessità di farle sentire speciali con quel poco che hanno.
Esistono di storie anche sfuggenti, che corrono, si fermano e rallentano. Ti fregano e ricominciano a correre fin quando non muoiono. Come i tocchi di un pianoforte.
Se inventavo qualcosa che richiedesse costanza e l'impegno di più capitoli non riuscivo mai a portarla a termine. Sono ancora oggi una ragazza indecisa. Cambio, modifico, aggiungo, rintaglio, tutto purché un pubblico con un'età maggiore della mia s'interessasse, anche incuriosirsi di quello che i miei occhi scrutano in un pezzo di carta. In magari un passo di musica. Mi illudevo che un giorno sarei diventata famosa, popolare perché amavo osservare il tocco delicato e le cose scontate. E dato che non ero in grado di scrivere e descrivere magari come avrei voluto revisionavo due righi cento volte, fin quando non otteneva la perfezione stabilita.

Perfezione, che parolone.

Magari ci fossi arrivata una misera volta. Maniaca della perfezione, sì. Narcisista e vanitosa fino alle ossa, egocentrica, egoista, viziata... "Le fai due complimenti e crede di poter conquistare il mondo".

"Era debole di cuore, di un amore così distaccato dalla realtà, quasi immaginario ma impresso nelle medesime e infinite note di quella musica che aveva scritto lei stessa." finii la storia di quei due giovani con il mio lacrimare frustrante, incessante, pensando che dopotutto, quelle parole erano vere.

"Sono debole". E non volevo che nessuno lo scoprisse. Nessuno doveva sapere. E se questo non lo raccontava la mia voce o la carta, lo faceva la musica.

***

Hola chicas!

(correggetemi se sbaglio, la venia per la mia ostinata testa nell'aver preferito il latino allo spagnolo).

ALLORS. (pure il francese, residui di quando ero alle medie).
Dopo una pausa abbastanza enorme ho deciso di ripubblicare questa storia. Perché così mi andava, perché è un pezzo della vecchia me, perciò basta, pubblicata, senza rimorsi e tentennamenti. Fatemi sapere cosa ne pensate sui commenti.

thejenk.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 04, 2020 ⏰

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