Ci sono spazi freddi negli incastri tra il mare e il cielo. Andiamo a giro, quasi senza pensare. Il silenzio mi rasserena, mi rende meno distante. Faccio finta di stare bene. Entro piano nel bar, provo a stabilire un contatto visivo. Una linea tra il cielo e il carattere. Qui non si può cambiare niente. Non rimane che una linea asciutta con un orizzonte. Allora credo che questi spazi siano la mia linea dritta con gli altri. Posso avanzare. Ma non vado avanti mai.- Sei stanco Marco - mi chiede il gestore del bar. Sembra che mi guardi con un occhio di rimprovero.
- No non sono stanco. Dammi da bere. Voglio stare tranquillo - non ho voglia di parlare, nemmeno con lui.
- Ti ha cercato Fabrizio. E' passato due volte. Pensava di trovarti Fabrizio.
Fabrizio, dopo la rapina ho lasciato scorre
- Cosa voleva da me Fabrizio, non ci siamo più visti.
Sono io la causa di tutto questo, penso. Cerco tra le cifre del mio smartphone il numero di Fabrizio. Faccio il numero. Mi compare il suo viso pieno, da bravo ragazzo. Sono affacciato su quella notte. Non mi risponde Fabrizio. Ripenso che quella è stata l'ultima notte che l'ho visto. Ricordo il suo sguardo prima della tentata rapina. La vita è stretta. Cosa vorresti dirmi? Perché mi cerchi Fabri?
Provo ancora a chiamarlo. Niente. Non mi risponde. Non ci sono segni di apparente vitalità.
Sono sicuro che le cose possono migliorare, ma solo un poco. Come una leggerissima discesa da cui piano risalire. Penso a mio fratello, a come sta sicuro che tutto possa essere sempre per il meglio. Alla sua ostinazione. Che tutto sia almeno un po' migliorabile. Alla sua fissazione quasi. Penso alle sue intemperanze. Ai suoi occhi persi nel cielo. Non credo che si possa dire altro. Adesso avanzo verso la casa di Cinzia, la mia donna, per tanti anni. Ci siamo allontanati. E poi ci riavviciniamo, ogni volta, senza saperci decidere. Penso che sia là il posto dove volevo andare. La persona che volevo vedere. La vedo sola, sempre bella, lo sguardo rarefatto. Non sembra serbarmi rancore. Avere astio nei miei confronri. Per come, ci siamo lasciati. Per quello che ci siamo detti. In fondo, è andata cosi. La solitudine ci ha sfiorato piano l'anima e ci siamo lasciati andare ad altro. Intendo ad altre intenzioni. Ad altri progetti. Le bimbe sono in camera che giocano. Adesso siamo distanti, con Cinzia. Anche se ci vediamo ora tutti e quattro, dopo tanto tempo. E' strano, è come e dovessimo per forza dimostrare qualcosa. E sento come questo possa essere la cosa migliore per tutti. Ma allo stesso tempo sento come mi stia allontanando dalle loro presenze, ogni istante che sono là dentro. Ogni attimo che passa.
- Cinzia tu sei felice?
- Per quanto possa esserlo , due bimbe piccole. Noi tre sole. Non so se mi spiego.
- Si ti spieghi anche troppo bene – la guardo e faccio finta di venire incontro alle sue difficoltà. Imposto una voce metallica. Falsamente neutra.
- E adesso cosa farai. Ho un progetto fra le mani. Una specie di gioco. Ma potrei guadagnarci dei soldi.
Mi guarda come si guarda un poveraccio. E io guardo lei. E'ancora bella Cinzia. Gli occhi profondi. Inquieti. La voglia di fare capire. Anche non dicendo tutto.
Mi ricordo dei Natali quando avevo dieci anni. Di come aspettavo il Natale per poter dire il Natale è passato. Come non sopportavo la famiglia. La famiglia allargata. La necessità di stare tutti insieme. Di poter raccontarci aneddoti. Favole. Anche allora ero perfettamente incapace di sostenere un discorso. Di raccontare un aneddoto con chiarezza. In fondo anche allora ero chiuso nella mia dolcezza. Che allora era chiusa intelligenza e oggi non è nemmeno quella. Adesso farfuglio il mio disagio.