16- Give Up.

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Scacciai la sua mano sottraendomi al suo tocco.

Le labbra premute in una linea dura e gli occhi fissi nei suoi.

Non ero un giocattolo che poteva prendere e giocarci a suo piacimento, come e quando ne aveva voglia.

Stavo sbagliando tutto, un altra volta.

Maledetto sia stato il giorno in cui lo incontrai.

Maledetto siano stati i miei sentimenti verso di lui che si mutarono rendendosi con il tempo sempre più forti.

Ma non ero più la ragazzina che si faceva manipolare da lui.

"Smettila di giocare con me Jason, finiscila. Non resterò qui a fare la statuina, a fare la terza incomoda mentre tu te ne stai con la tua fidanzatina, ad aspettare che andate in giro seguiti dai paparazzi e poi ritrovarmi i social, i giornali e la TV intasati di vostre foto e notizie" dissi ferma, lo sguardo che non lasciava il suo.

Dovevo farglielo capire. E dovevo farlo capire anche a me.

"Abbiamo sbagliato.. ho sbagliato ad avvicinarmi nuovamente a te, a confessarti quelle cose quella notte. Non dovevamo darci un'altra opportunità, infondo si sapeva che -una risata senza divertimento lasciò le mie labbra- che questo sarebbe stato il risultato" ci indicai.

"Quindi ti arrendi?" avanzó.

Indietreggiai.

"Non ho motivo per cui combattere" girai attorno al tavolo, la consapevolezza che se sarei stata ferma mi avrebbe intrappolata.

"Noi, non siamo un motivo?" cercò di afferrarmi il polso ma lo tirai di scatto, dovevo mettere un limite.

A partire dal contatto, di qualsiasi tipo.

"Non esiste un noi" mi fermai puntando i piedi, arrestó i suoi passi di fronte a me "Non più" scossi la testa nascondendo le mani tremanti nelle maniche larghe della felpa.

Il freddo si stava impossessando di me, una mano fredda a stringere il cuore fino a ridurlo in brandelli.

Eravamo così opposti.

Lui emanava calore, potevo percerpirlo. Ne avevo bisogno.

Lui fuoco, io ghiaccio.

I suoi occhi tramutarono, da un nocciola che fino a quel momento riuscirono ad restare chiari in un tempo così breve divennero neri.

Scostò la sedia da sotto il tavolo e alzandola la scaraventò contro la credenza mandando tutto in frantumi.

Indietreggiai coprendomi il viso con entrambi le mani.

"PORCA PUTTANA MAGGIE!" tuonò, i suoi passi sempre più vicini a me finché non percepì le sue mani afferrare con forza i miei polsi allontanandoli dal mio volto scuotendomi con veemenza "MI HAI ROTTO VERAMENTE I COGLIONI."

"MI SONO ROTTO DEI TUOI STUPIDI GIOCHETTI DEL CAZZO, SEI SOLO UNA BAMBINA CHE CONTINUA A MENTIRE, A NASCONDERSI PER PAURA DELLE CONSEGUENZE, NON RIESCI A COMBATTERE, NON RIESCI AD AMMETTERE LA REALTÀ, NON RIESCI-"

"Jason.. " mi piegai sconfitta dal dolore che le dita avvolte attorno ai polsi mi procurarono.

Prese un respiro profondo stringendo un ultima volta e staccandosi bruscamente come se il nostro contatto potesse ustionare.

"Davvero assurdo.." sussurrò passandosi una mano sul viso.

Massaggiai i polsi doloranti ricoperti dalle sue impronte, era sempre stato così, doveva esserci sempre un suo marchio addosso a me.

Troppo egoista, troppo possessivo.

"Parli proprio tu di non affrontare la realtà -scossi la testa abbassando gli angoli della bocca in una sorta di smorfia- io ho affrontato tutte le conseguenze che questa dannata storia ha portato. Io ho subito tutti i pettegolezzi che si sentivamo girare su di te -puntai un dito verso di lui- ero io che mettevo la faccia nei corridoi della scuola dopo che la sera prima si vociferava che ti eri fatto qualcuna, casualmente quando non c'ero io" risi senza divertimento.

"Io, ho scontato i mesi in carcere e mi chiedo per cosa? VISTO CHE SEI VIVO E MI STAI ROMPENDO I COGLIONI" a questo punto scoppiai anche io non riuscendo più a trattenermi.

"Io, ho dovuto subire le umiliazioni della tua famiglia e ah, cos'è che hai detto? Paura di non affrontare le situazioni? Chi è che non si faceva vedere in pubblico con la sottoscritta? Troppo intimorito che qualche paparazzo fosse sempre tra i paraggi! Dovevamo sempre farci ore di macchina per andare a mangiare da qualche parte, tutto perché il signorino non aveva le palle e non voleva farsi beccare in giro con una ragazza normale e non dello suo stesso livello sociale" sbraitai.

"Mi dispiace allora!" urlai con più fiato in corpo, il respiro mozzato e irregolare.

Strinse le mani, chiuse in un pugno, le nocche sbiancare.

"Non eri tu che dovevi portarti il peso del proprio cognome, non eri tu che dovevi essere sempre attento ad ogni mossa che faceva affinché il nome della propria famiglia restasse lucido -ringhiò quasi mostrando i denti- stavo solo cercando di prottegerti"

"Prottegermi da cosa?" gesticolai continuando a voce alta.

"DALLA MIA FAMIGLIA" quell'urlo mi entró fin dentro l'anima infiltrandosi tra le viscere della mia anime.

"Non ha funzionato a quanto pare" fu l'unica cosa che riuscì a far uscire dalle mie labbra.

Dalla mia famiglia.

"Credimi, sarebbe stato molto peggio se non fossi intervenuto in qualche modo" mi lanciò un occhiata.

"Kelsey era sottoposta a tutto questo, paparazzi ovunque, domande su domande e anche se era di buona famiglia non la credevano comunque alla mia altezza" sospirò, una nota di tristezza che trapelò nella sua voce.

Inumedì le labbra secche, avevo perso completamente il filo del discorso.

"Non mi ritenevi all'altezza?" ebbi l'audacia di chiedere.

"Non ero io Maggie, era la mia famiglia che ti riteneva tale" si passò una mano tra i folti capelli.

"No Jason, non intendevo quello. Tu, non mi ritenevi all'altezza di poter sopportare quello, vero?" incastrai gli occhi nei suoi.

Aprì la bocca per parlare ma sembrò che le parole gli morirono in bocca, incastrate in gola a raschiare contro la laringe incapaci di uscire.

Mi uscii un verso tra una risata ed uno sbuffo alzando le sopracciglia e abbassando le spalle sentendo un peso pesarsi su esse.

"È solo che- sospirò non riuscendo bene cosa dire- Kelsey aveva difficoltà e non volevo che la stessa cosa succedesse a te-"

"Io non sono Kelsey, Jason!" urlai guardandolo.

"So che non sei lei" mi guardò, una strana luce a velare i suoi occhi.

"Allora smettila di trattarmi come lei" mormorai sentendomi sempre più stanca, soffia via l'aria trattenuta con frustazione passandomi le mani tra i capelli portandoli indietro.

"Ciao Jason" lo guardai uscendo dalla cucina, le gambe instabili rimasero finché non raggiunsi la macchina di Justin e salii su essa.

"Portami via, ti prego" posai il gomito sul finestrino tenendo una mano contro la fronte chiudendo gli occhi.

Sentii la macchina accendersi, aprii lentamente gli occhi vedendo Jason uscire dalla villa, le mani in tasca ed uno sguardo che prometteva tante cose.

E rimase, finché i miei occhi furono troppo lontani per poter distinguere la sua figura quando la macchina prese velocità mettendo sempre più chilometri fra di noi.

era stata la decisione giusta?

Him&I |Jason McCann|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora