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Quando mi svegliai, compresi subito di aver perso i sensi a causa dell'impatto. A dire il vero, anche uno stupido lo avrebbe capito, ritrovandosi con un mal di testa terribile e una bistecca scongelata su un occhio.

Scostai il pezzo di carne, sperando non si trattasse della mia cena, e feci per sollevarmi sui gomiti; subito un paio di mani mi afferrarono per le spalle, rigettandomi giù e facendomi sbattere la nuca contro qualcosa di morbido, ma che mi procurò comunque un forte dolore. Forse avevo fatto un torto a qualcuno, magari in un'altra vita, e il karma aveva deciso che fosse arrivato il momento per farmela pagare.

«Non si alzi, potrebbe avere un capogiro e cadere a terra» disse una voce femminile che riconobbi: era la signorina Lim. Era stata lei a rigettarmi su quello che sembrava un divano di velluto e adesso mi aveva afferrato per le gambe, sollevandomele fino al bracciolo del divano.

Provai a immaginarmi, mezzo disteso e con le gambe all'aria, ma appena riuscii a farmene un'idea, decisi di accantonarla.

«Le è venuto un occhio nero da fare invidia a un panda» mi fece notare.

Beh, alla fine, il panda sarebbe potuto essere il mio animale guida: entrambi mangiavamo male, eravamo pigri e non perdevamo tempo nel rincorrere le femmine. A dire il vero, io le avrei rincorse volentieri, ma ero sempre oberato di lavoro e in quei pochi momenti liberi preferivo riposare. Avevo persino lasciato a metà la parete della mia cucina...

«I panda sono carini» mugugnai.

«Se lo dice lei» rispose la signorina.

«Da quanto tempo sono qui?» chiesi.

Lei afferrò la bistecca che era rimasta accanto alla mia testa e la lanciò lontanò. Subito si sentì il rumore di denti che strappavano e masticavano, cosa che mi spaventò.

«Ha passato la notte sul divano, non siamo riusciti a portarla di sopra».

Mi mossi appena per guardarmi attorno, non c'era nessuno, oltre noi due. «Non siete riusciti?» chiesi.

Lei annuì. «Mio fratello era in casa fino a poco fa, ma non è mai stato un tipo in forze».

Sì, il fratello, il mio committente. Per un attimo avevo rimosso.

«Se tra un po' riesce ad alzarsi, le consiglio di sistemare le sue cose nella camera che le abbiamo preparato. Rimarrà qui per molto, suppongo».

Ci pensai. In effetti non si era parlato del lasso di tempo che avrei dovuto passare in quel luogo, ma non pensavo si sarebbe trattato di più di un mese o due. La commissione riguardava una decina di capi ed io ero molto veloce a creare. «Approssimativamente, di quanto tempo stiamo parlando?» chiesi.

Lei parve rifletterci a sua volta. «Dipende da lei. Il suo orario di lavoro va dalle dieci di mattina alle due del pomeriggio. Non le è permesso entrare nella sartoria prima o dopo questo orario. Il resto della giornata è libero di passarla come meglio crede».

Per un attimo non capii se stesse parlando sul serio o se mi stesse prendendo in giro. «Quattro ore? Solo quattro ore al giorno?»

La signorina annuì.

«Voi siete matti! Non finirò mai!»

«Queste sono le regole per lavorare qui. Credevo che la sua segretaria gliene avesse parlato».

Ebbene, no! Non lo aveva fatto! E ormai non avrei più potuto tirarmi indietro. Soffocai un'imprecazione; non volevo litigare con quella ragazza, non in casa sua e non nelle condizioni in cui mi trovavo. Mi misi a sedere con lentezza, poi mi alzai, avvertendo una sorta di leggerezza in testa e un forte dolore sull'occhio sinistro. Chiesi di mostrarmi la mia stanza e la signorina Lim mi fece strada in quella che scoprii essere un'enorme villa dei primi dell'Ottocento. La stanza si trovava al piano di sopra, in fondo a un lungo corridoio che avanzava in entrambe le direzioni; noi ci dirigemmo alla sinistra di chi si trovava a salire le scale. Era grande quanto il mio soggiorno e la mia cucina messi insieme, e se non fosse stata piena di mobili e tende, si sarebbe potuta sentire l'eco quando ci si parlava dentro.

Appena la signorina mi lasciò da solo, cominciai a disfare la mia valigia e ad allestire un piccolo tavolo da lavoro su una scrivania di legno scuro, pensando che, se anche avessi potuto passare solo quattro ore nella sartoria, nessuno mi avrebbe impedito di continuare il mio lavoro in camera; mi era stato detto che avrei potuto passare il resto della giornata come meglio credevo e, seppure fossi pigro, non ero abituato a oziare.

Qualche ora più tardi sentii bussare alla porta e dopo aver dato il permesso di entrare, rividi la padrona di casa.

«Chiedo scusa per il disturbo, il pranzo sarà in tavola tra qualche minuto. La invito a scendere in sala» mi disse.

«Nessun disturbo, sarò giù tra poco» le risposi, mentre sistemavo l'ultima giacca all'interno di un armadio a quattro ante.

Lei andò via ed io mi ritrovai a chiedermi come mai una ragazza tanto giovane usasse un linguaggio tanto formale. Dimostrava appena diciott'anni; io e i miei coetanei, alla sua età, era già tanto se non venivamo scambiati per scaricatori di porto. Potevo capire l'educazione impartita per mantenere un certo rango sociale, ma di quei tempi, lo trovai un comportamento ridicolo.

Mi affacciai da una porticina che credevo essere un secondo armadio e scoprii che si trattava del bagno. Ne approfittai per darmi una rinfrescata e cambiarmi, volevo essere presentabile, pensando che avrei potuto conoscere il mio committente.

Appena fui pronto mi avviai per raggiungere il piano di sotto, sperando di avere un aspetto decente, vista l'assenza di specchi che mi impossibilitava a controllare che tutto fosse a posto. Ma quando raggiunsi la sala da pranzo, notai che ci fosse solo la signorina.

«Suo fratello non pranza a casa?» chiesi, prendendo posto accanto a lei.

«No, lui non mangia con me. Esce la mattina presto e torna dal lavoro a notte inoltrata» disse, mentre mi riempiva il piatto con della minestra e della carne bollita dall'odore speziato.

«Mi scusi, ma se non è mai a casa nelle mie ore lavorative, come farò a prendergli le misure necessarie e a fargli provare i capi da completare?» la situazione stava diventando surreale.

Lei rimase in silenzio, concentrata nel servire anche sé stessa senza fare macelli. Solo quando ebbe finito si preoccupò di rispondere. «Le misure gliele ho prese io e le ho lasciato in sartoria degli abiti che gli appartengono e sui quali potrà confrontare le taglie. Per quanto riguarda le prove, sono sicura che saprà farne a meno e che i capi gli calzeranno a pennello».

Sì, mi stavano prendendo palesemente in giro, ne ero sicuro. «Signorina, lei e suo fratello avete idea di come si-».

«Vuole del pane, signor Gori? Da queste parti si fa un ottimo pane ai cereali» mi interruppe.

La osservai. Ero sotto shock.

Sul serio volevano che lavorassi per sole quattro ore al giorno e checucissi degli abiti che non avrebbe provato nessuno, con la pretesa checalzassero a pennello? Io non lavoravo in quel modo, il mio è un mestiere diprecisione, non potevo fare qualcosa di campato in aria. O almeno questo fuquello che pensai in quel momento.

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