8.

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Sollevai la testa dal gabinetto solo il tempo necessario a riprendere fiato, prima di tornare a rigettare l'anima.

Dovevo andare via. Subito!

Mi sollevai dal pavimento del bagno e mi artigliai al lavandino per non cadere a terra. Mi girava la testa, avevo la tachicardia e sentivo che tra non molto avrei vomitato il resto della cena che mi era rimasto in corpo. Chiusi gli occhi e li riaprii subito, non riuscivo a togliermi quell'immagine dalla mente.

Il cane mi si strusciò contro e dovetti ammettere che riuscì a trasmettermi un certo sollievo. Il resto lo fece l'acqua fredda con la quale sciacquai il viso e i polsi. Mi sentivo frastornato, non avrei mai dovuto accettare quel lavoro.

Tornai in camera e gettai la valigia aperta sul letto, poi spalancai le ante dell'armadio e cominciai a prendere tutta la mia roba. Raggiunsi il comodino e afferrai il telefono, cercando il numero della mia segreteria e facendo partire la telefonata. Mi tremavano le mani, presto mi resi conto che era tutto il mio corpo a tremare, persino i denti battevano forte. Attesi tre squilli, poi mi rispose una voce assonnata.

«Pronto?»

«Sono Alberto. Ascoltami bene, ho bisogno del tuo aiuto» cominciai. Parlai con un filo di voce per evitare che qualcuno potesse sentirmi attraverso la porta rotta.

«Al, cos'è successo?» parve comprendere il mio stato d'animo.

«Non ho tempo per spiegare. Devi fare un accredito sul mio conto corrente e procurarmi dei biglietti per un posto qualsiasi, purché sia lontano da dove mi trovo adesso» le dissi.

Non volevo rischiare di essere trovato facilmente, avevo paura che, se fossi tornato a casa, mi avrebbero seguito. Dovevo allontanarmi il più possibile.

«Va bene, ti telefonerò appena avrò fatto» rispose.

«No. Ti telefonerò io verso le dieci di mattina, se non dovessi avere mie notizie per quell'ora, denuncia la mia scomparsa».

Dall'altro capo seguì qualche attimo di silenzio. «Va bene» rispose infine.

La telefonata terminò e tornai ad accatastare le mie cose in valigia, controllando di avere tutti i documenti a portata di mano e accorgendomi solo in quel momento che non erano più dove li avevo lasciati.

«Cerca qualcosa?»

Mi voltai di scatto, trovando una donna in piedi accanto al letto. Non l'avevo sentita entrare e non impiegai molto a capire che così non era stato, perché la porta non era stata aperta. La osservai bene alla luce della lampada accesa sul comodino e mi resi conto che si trattava della stessa donna che avevo visto nella sartoria, attraverso la serratura. Ma non poteva essere lei!

Il cane le abbaiò contro con tutte e tre le teste, mentre io mi avventavo sulla scrivania per afferrare un paio di forbici.

Lei rise di me.

«Sta' lontana!» urlai.

In quel momento sentii il rumore di passi che si avvicinavano nel corridoio. La donna si lanciò verso di me ed io le scagliai contro le forbici aperte, che la colpirono, ma non servirono a fermarla. Mi spinsi contro la parete e sollevai le braccia per farmi scudo da qualcosa che non arrivò mai.

La porta si aprì, io non mi mossi, non ne ebbi la forza. Sentii delle mani che mi prendevano delicatamente le braccia, facendomele abbassare. Davanti ai miei occhi sgranati dal terrore c'era la signorina Lim.

«Alberto, si calmi. Va tutto bene». Lo ripeté più volte, seppure neanche lei lo credesse.

Anche Abel entrò nella stanza ed entrambi mi aiutarono a stendermi sul letto. Stavo sudando freddo, tremavo, non riuscivo a parlare e respiravo a fatica. La signorina mi posò una mano sulla fronte e si rivolse al maggiordomo. «Ha la febbre alta, prendi delle pezze e dell'acqua fredda, al resto penso io».

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