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La sartoria era un unico, grande ambiente dalle dimensioni di una sala da ballo. Due delle pareti e buona parte del soffitto erano formati da enormi lastre di vetro, che rendevano l'ambiente molto luminoso. Praticamente sembrava una serra. Su una delle parti in muratura erano distribuiti scaffali e cassetti che salivano fino al soffitto, sull'altra si trovavano la porta che dava nell'interno della villa e una che conduceva a una lavanderia. L'insieme era molto bello da vedere, ma dopo esserci stato dentro per cinque minuti, cominciai a pensare che ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato.

La signorina Lim mi aveva lasciato tutte le misure necessarie e una serie di giacche, camicie e pantaloni su un divanetto a due posti in stile impero, posizionato accanto a una delle vetrate. E poi c'erano loro: i manichini.

Nel mio lavoro, quegli arnesi erano molto importanti; in quel caso, a renderli tali era il fatto che il mio committente non avrebbe misurato nessuno degli abiti che avrei dovuto cucire, quindi rappresentavano i miei modelli. Erano due, completi di testa, braccia e gambe. Per farvi capire, erano il genere di cose che non vorresti in camera da letto di notte. Ma io avrei dovuto lavorare solo dalle dieci di mattina alle due del pomeriggio... la cosa ancora non mi andava giù, ma pareva che la signorina ne avesse parlato con la mia segretaria e che lei avesse dimenticato di dirmelo. O, come sospettavo, lo aveva omesso di proposito.

La prima ora la passai a capire dove fosse cosa, perché mi era stato detto che la postazione sarebbe stata attrezzata di tutto, quindi non sarebbe stato necessario portare i miei attrezzi del mestiere dalla mia stanza alla sartoria. La seconda la dedicai all'allestimento del mio tavolo da lavoro, molto più grande del necessario; una roba che, se mi fosse scivolato il gessetto un po' più in là, mi sarei dovuto arrampicare sul piano, per poterlo recuperare. Le altre due, invece, le usai per disegnare i primi cartamodelli per tre tagli di giacche differenti. Quella mattina mi erano stati consegnati i bozzetti, con tanto di appunti su quali materiali usare per il taglio e la confezione. Fu un'accortezza che mi rese estremamente felice, perché così non avrei dovuto rincorrere la signorina Lim per tutta la villa, visto che non possedeva un telefono.

Sul serio, chi non ha un telefono al giorno d'oggi?

A tre minuti dallo scoccare delle due, dall'interno della villa arrivò il suono dei rintocchi di un orologio, una roba da film horror. In quello stesso momento si aprì la porta che dava all'interno della casa e la signorina si affacciò con un sorrisetto gentile.

«Buon giorno ancora, signor Gori. Il pranzo sarà servito a momenti, il cuoco ha messo particolare impegno nel prepararlo» annunciò.

Io, in realtà, stentavo a credere che in quel posto ci fosse qualcun altro all'infuori di noi due. «Arrivo tra un attimo, il tempo di ricopiare l'ultima paramontura».

Entrò nella stanza, producendo un ticchettio veloce di scarpette, mi posò una mano su un braccio e mi indusse a voltarmi. «Sarei più contenta se lei venisse via con me. Adesso». La sua voce suonò distorta alle mie orecchie e avvertii l'impulso di lasciare tutto e scappare via da lei. Tuttavia, il mio corpo decise di ignorare il mio istinto di sopravvivenza. Mollai carta e matita e la seguii. Mentre lo facevo, sapevo che non fosse da me lasciare che qualcuno mi desse ordini senza lasciare un margine di replica, eppure non fiatai.

Quando arrivammo in sala da pranzo, il cibo era già stato portato sul tavolo, accanto al quale ci aspettava un uomo di mezza età: era alto e se ne stava dritto sul posto, con addosso una livrea da maggiordomo che avrebbe fatto svenire qualsiasi storico della moda ottocentesca. Appena gli fui vicino, potei notare l'ottima manifattura dell'abito.

«Porta addosso un bel pezzo di storia» gli dissi.

Lui abbozzò un inchino.

«Abel è il nostro maggiordomo, è muto dalla nascita» mi fece notare la signorina.

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