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Aprii gli occhi. Ero nella mia stanza, accanto a me c'era Jackie che continuava a sonnecchiare, il sole filtrava attraverso le tende e la sveglia non aveva ancora suonato.

Il giorno prima era stato surreale; ricordai di essere stato in biblioteca con la signorina Lim e del bacio. Non sapevo cosa mi fosse preso, io non ero così, non andavo all'attacco. Non ero bravo con le persone.

Mi stiracchiai e diedi un colpetto su una delle zampette del cane, non era giusto che lui continuasse a godersi la vita, mentre io dovevo alzarmi. Avrei voluto continuare a riposare, ma non potevo.

Feci una doccia veloce, mi vestii e scesi al piano di sotto per fare colazione. La signorina non c'era, quindi decisi di mangiare qualcosa al volo e corsi in sartoria, varcandone la soglia allo scoccare delle dieci, non un minuto prima.

Passai l'intera mattinata a lavorare su un gilet. La stoffa indicata era molto elaborata e dava gioia solo a guardarla, ma la cosa scemava appena si cominciava a lavorarla. In meno di mezz'ora aveva piegato quasi tutti gli spilli che avevo a disposizione, tanto era spessa e rigida. Anche le mie mani avevano risentito di quel lavoro e, a venti minuti dalle due, fui costretto a fermarmi per massaggiare le dita. Mi misi a sedere sul divano, ma la mia attenzione venne attratta da uno dei pezzi di stoffa rimasti, uno di quei ritagli che vengono scartati. Era caduto a terra, in mezzo ai fili spezzati e ad altri pezzi di stoffa che poi avrei dovuto raccogliere e mettere da parte, per farli buttare via da Abel. A guardarlo sembrava un semplice ritaglio, un pezzettino di stoffa rosso borgogna, decorato da ricami dorati. Non capivo perché, ma rimasi a fissarlo a lungo.

Il dolore alle mani non dava cenno di voler diminuire e cominciai a sentire un leggero mal di testa. Provai ad alzarmi, ma dovetti fermarmi a causa di una forte fitta alla tempia destra. Mi portai una mano alla testa e attesi che passasse, abbassai lo sguardo e vidi il pezzetto di stoffa accanto ai miei piedi. Ma la stoffa non cammina da sola. Lo afferrai e lo passai tra le mani, era solo un piccolo scarto.

Lo gettai via e mi alzai, questa volta riuscendoci, poi presi il gilet e mi avvicinai alla macchina da cucire: un gioiello d'epoca che produceva un rumore simile al verso di un cinghiale che viene scuoiato vivo. Avevo chiesto diverse volte ad Abel di darmi dell'olio per sistemarla, ma non me lo aveva mai portato.

Cucii tutte le parti, poi presi un paio di forbicine e mi impiegai per tagliare via i fili in eccesso. Qualcuno alle mie spalle si schiarì la voce, ed io sussultai, facendomi cadere il gilet dalle mani. Mi abbassai per raccoglierlo e nel rialzarmi battei la testa contro il tavolo. Quel genere di incidente stava diventando una nota caratterizzante delle mie giornate in quel luogo.

«Non era mia intenzione spaventarla» sentii dire.

Ebbi l'impressione che quella frase significasse l'esatto contrario.

Mi risollevai tenendo una mano sul punto in cui mi ero fatto male e mi ritrovai di fronte a un giovane uomo dall'aspetto distinto. Portava un completo turchese dalle rifiniture dorate, in una mano reggeva un bastone da passeggio verniciato di bianco e aveva i capelli castani e lunghi fino alle spalle, lasciati liberi da ogni costrizione. A occhio e croce, poteva avere all'incirca la mia età.

«Mi scusi, non la ho sentita arrivare. Sa, il rumore della macchina» dissi.

«Immagino» rispose lui.

Cadde il silenzio ed ebbi la sensazione che, se fosse stato possibile, avrebbe voluto pugnalarmi con il solo sguardo.

«Lei è?» chiesi.

Mi rivolse un sorriso tirato e allungò una mano guantata verso di me, che la strinsi per cortesia. «Gaurav Weil, il padrone di casa» annunciò.

Saltai in piedi e mi diedi una sistemata veloce per eliminare eventuali residui di filo e gesso dai miei vestiti, rendendomi conto troppo tardi dell'inutilità del gesto. «Piacere di conoscerla, io sono Alberto Gori, il sar-»

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