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Era passata una settimana dal mio arrivo. Dopo l'episodio della lavanderia non era successo nient'altro, cosa che mi diede modo di recuperare la tranquillità necessaria a dormire la notte.

Avevo terminato la prima giacca, l'avevo stirata e appesa a una rella che avevo chiesto alla signorina Lim e sulla quale avrei sistemato anche gli altri capi completi. Era lunedì e stavo lavorando alle rifiniture della seconda giacca, più pesante e ricamata della prima. Mi era stato chiesto di usare un panno rosso molto liscio e della pelle nera, quest'ultima non era facile da lavorare.

La signorina aveva preso l'abitudine di venire a trovarmi, spesso mi osservava in silenzio, qualche volta mi faceva domande sul perché una cosa si facesse in un determinato modo. Io rispondevo sempre, cercando di sembrare disinvolto, ma ricordando che le cose sarebbero potute cambiare qualora l'avessi contraddetta. L'idea di essere tenuto sotto controllo mi pesava, ma se tanto bastava a far cessare gli eventi strani, avevo deciso che avrei fatto tutto quello che mi avrebbe chiesto.

Anche quella mattina era venuta in sartoria e si era seduta sul divanetto per leggere un libro. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo su di me, osservandomi con un'attenzione che mi dava i brividi.

«Non si stanca mai?» chiese a un certo punto.

«Di cosa?» chiesi a mia volta, mentre attaccavo il secondo bottone della giacca.

«Di tutto questo» specificò, indicando il tavolo.

Mi sforzai di sorriderle. «No, non mi stanco perché non faccio mai la stessa cosa».

La signorina mise da parte il suo libro e si avvicinò. «Non intendevo questo. Lei lavora quattro ore al giorno e da quando mette piede qui dentro, a quando sente i rintocchi dell'orologio, non si ferma mai».

Mi strinsi nelle spalle. «Se mi fermassi a fare pause, avrei ancora meno tempo. Non finirei mai».

Parve rabbuiarsi e tornò alla sua occupazione. Non le diedi molto peso, immaginando che io rappresentassi qualcosa di nuovo per lei, una compagnia dalla quale non avrebbe voluto separarsi facilmente. A quanto avevo potuto capire, la sua vita non comprendeva svaghi o amicizie.

Appena sentii il primo rintocco mollai tutto e raggiunsi la porta che conduceva all'interno della casa. La signorina mi seguì, tenendosi a qualche passo di distanza. Quando fummo in sala da pranzo Abel servì della carne arrosto con un contorno di verdure fresche. Attesi che ebbe finito di sistemare i piatti e cominciai a mangiare, ansioso di poter tornare in camera mia.

«Le andrebbe di passare la giornata con me?»

Deglutii a fatica il boccone che stavo masticando, i miei piani erano appena andati in fumo. «Certo» risposi.

Lei sorrise affabilmente, prima di riprendere a mangiare.

A pranzo concluso ci incamminammo nel giardino, costeggiando delle aiuole ben curate e piene di fiori che non conoscevo.

«Questi cosa sono?» chiesi, indicandone uno dalla forma a calice. Aveva dei petali viola talmente lucidi da riflettere la luce del sole.

«Si chiama Mysthium, serve a curare l'indigestione e ci libera dalle cavallette».

«Non ne sopportano l'odore?» chiesi ancora, incuriosito.

Lei scosse la testa. «Oh, no, loro lo adorano! Gli si avvicinano e lui le mangia».

Ed io, che mi ero appena chinato per osservarlo meglio, mi ritrassi per evitare di fare la stessa fine. «Che lavoro fa suo fratello?»

La signorina si prese del tempo per riflettere, prima di rispondere. «Lavora nelle distribuzioni. Si può dire sia una sorta di mercante. Le persone chiedono una sua consulenza e lui le indirizza verso il giusto prodotto».

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