- Non so dove di preciso, ma una volta ho letto che i ricordi non sono mai completamente veritieri, poiché recano in loro le sensazioni provate in quel determinato momento di vita vissuta, e per questo chi si fregia di avere un'ottima memoria, in realtà non ricorda che una versione ovattata di quanto realmente accaduto. Non è compito mio stabilire se questa teoria sia veritiera o meno. Quello che so per certo però, è che non voglio perdere nulla di te, nemmeno un solo, singolo frammento di memoria, perché ormai è solo la memoria tutto ciò che mi resta di noi. -
Uno sbuffo sfuggì dalle sue labbra sottili, mentre con molta poca grazia richiudeva il libro che aveva sfogliato sino a quel momento, facendo voltare verso di sé un paio di ragazzi seduti a qualche tavolone di distanza, probabilmente intenti a studiare per le ultime verifiche del quadrimestre.
Era andata in biblioteca in cerca di un po'd'ispirazione per le sue storie, ma non ne aveva cavato un ragno dal buco, poiché la sua mente continuava a viaggiare su binari differenti da quelli verso cui si voleva dirigere. E così finì col rinunciare.
Dopo aver riposto il tomo nello scaffale da cui lo aveva preso, raccolse l'astuccio ed i suoi fogli per gli appunti, mise tutto nella borsa a tracolla dai colori della bandiera americana, e lasciò la silenziosa biblioteca, sgattaiolando verso il giardino della grande villa padronale che ospitava la biblioteca appunto, oltre a mostre ed altri eventi culturali promossi dal piccolo comune lombardo in cui viveva.
I giardini erano ormai completamente in fiore, ma lei non vi badò, si diresse direttamente al suo antichissimo cerchio delle fate.
Ovviamente non era un cerchio magico, ma un grande albero che tutti chiamavano erroneamente salice piangente, quando in realtà era un qualche tipo di faggio raro. Quando era piccola vi andava spesso a giocare con gli amichetti dell'asilo: si arrampicavano sull'enorme tronco e sulle radici che fuoriuscivano dal terreno, creando tanti piccoli alberi tutti uniti assieme, e fingevano di essere in chissà quale fantastico mondo, tramutandosi in fate, guerrieri, draghi feroci e cavalieri.
Il grande faggio tuttavia stava ormai morendo, molti dei suoi rami erano stati tagliati dopo un forte temporale che aveva distrutto buona parte delle radici l'estate precedente, e non fioriva più. Vi erano ancora le verdi foglie che sembravano creare una fitta cortina attorno al tronco madre, ma erano molto più rade e molto meno rigogliose.
«Un tempo sembravi nonna Salice di Pocahontas...»
Mormorò sconsolata la ragazza, stringendosi nelle spalle mentre col naso rivolto verso l'alto osservava i raggi del sole filtrare attraverso le fronde. Vi era ancora un po' della vecchia incantata atmosfera, ma non a sufficienza da placare il suo cuore bisognoso di lontane sicurezze confortanti.
Per un attimo le parve di rivedere se stessa più di vent'anni prima, intenta a correre e schiamazzare, sorridendo senza pensiero alcuno, ma anche quel riflesso svanì nei giochi di luce che animavano l'ombra di quel piccolo santuario naturale.
Un altro sospiro e la fanciulla lasciò anche quel luogo, tornando verso la piazza del piccolo paesino, tristemente vuota nonostante il timido sole primaverile di quel sabato pomeriggio.
Si era ripromessa di tirare dritta a casa, ma i suoi piedi la portarono lungo la discesa alberata che portava alla stazione. Sempre che si potesse chiamare stazione quel posto, dato che vi erano giusto due binari ed un bar. Nella sua piccolezza era tutto pulito ed ordinato però, e tutto sommato piacevole alla vista, nonostante l'inquinante vetreria che svettava oltre il muro in cemento che divideva i binari dalla fabbrica.
Lei aveva un rapporto molto particolare con i treni.
Si, amava viaggiare in auto, guidare oltre i limiti di velocità con la radio a volume altissimo, libera e impavida, ma adorava altrettanto prendere il treno. In lei nasceva una strana e romantica nostalgia mentre guardava il paesaggio mutare fuori dal finestrino, mentre passava di paesino in paesino, in quell'alternasi di collina e pianura. E poi era stato proprio un treno molti anni prima a salvarle la vita.
Non aveva più di sette o otto anni, e si era sporta su di un piccolo ponticello non lontano da quella stessa stazione. Mentre guardava giù aveva pensato che le sarebbe piaciuto volare, o forse lasciarsi cadere, e lo avrebbe fatto se il fischio del treno non l'avesse spaventata, tanto da farla saltare giù dalla parte opposta a quella contemplata, e correre via. Da allora lei e i treni erano divenuti grandi amici, anche se a distanza di anni non sapeva dire ancora se quel giorno fosse stata fortunata oppure no.
A volte la sua vita riusciva ad essere talmente orribile che un po' rimpiangeva di non aver compiuto il grande volo quel giorno lontano, ma la maggior parte del tempo comunque, riusciva a convivere con se stessa e con i suoi casini, abbastanza da gioire del fatto di essere ancora viva.
La voce preimpostata fuoriuscì dall'altoparlante alle sue spalle in quel momento, facendola sobbalzare, e poco dopo il treno arrivò. Lo osservò per qualche attimo, lasciando vagare lo sguardo verde bosco sulle persone che salivano e scendevano, poi presa da un nuovo moto d'insofferenza, simile a quello che l'aveva scossa in biblioteca, si lasciò la stazione e il treno ancora fermo alle spalle.
Percorse la solita strada fino al passaggio a livello, e benché si fosse sforzata di non voltarsi verso sinistra, l'istinto fu più abile, e la portò a girare lo sguardo verso la discesa che portava al vecchio cimitero.
Aveva giurato di non andare mai laggiù quando era di quell'umore cupo, ma ancora una volta i suoi piedi decisero per lei, ed oltrepassato il cancello in ferro battuto e arrugginito, i suoi passi cominciarono a farsi rumorosi sopra i sassi del sentiero che circondava le tombe.
Il percorso fu quello di sempre: la tomba ormai abbandonata del fratello mai nato di papà, che lei aveva adibito a luogo di riposo anche del proprio di fratellino mai nato, nonostante sapesse che quel corpicino era stato seppellito altrove, i bisnonni che non aveva mai conosciuto o quasi, ma a cui rivolgeva sempre un saluto e un pensiero, la nonna materna, persa pochi anni prima, e che persino nella foto sulla lapide sembrava seria e austera, lo zio di papà che aveva iniziato ad apprezzare troppo tardi, ed infine lei, la nonna paterna. La ragione per cui ormai ogni sabato si recava laggiù. La causa maggiore del suo tormento da qualche mese a quella parte.
Nella foto era quella di sempre, sorriso amorevole, rossi capelli ricci, occhiali un po' troppo grandi, e ovviamente una maglietta zebrata e colorata.
La ragazza si sedette sulla lapide e poggiò la guancia contro il marmo freddo, in quella posa che la faceva illudere di essere ancora tra le braccia della nonna adorata. Anche il vento lieve che spirava ogni tanto addolciva quell'illusione, era come se lei le stesse accarezzando i capelli. Come quando era piccola e non dormiva, e la nonna la prendeva in braccio per farle qualche coccola.
In effetti già allora avrebbe dovuto capire di essere una creatura destinata alla notte e al buio. Non c'era verso di farla addormentare. Di giorno andava all'asilo, giocava con gli altri bambini, guardava i cartoni animati, e di notte... di notte saltava sul letto dei suoi genitori, vuoto dalla parte di papà che era sempre via con il camion, facendo saltare i nervi di mamma.
E chi andava a salvarla sempre? Ovviamente sua nonna.
In qualsiasi ricordo si addentrasse, da qualsiasi parte del suo passatosi voltasse, quella donna amorevole e gentile era sempre presente. Una costante che era venuta a mancare troppo in fretta, troppo presto.
«Ho ancora tanto bisogno di te...»
Mormorò la ragazza con voce spezzata, mentre ricacciava indietro le lacrime, poiché aveva deciso mesi prima, di non piangere mai su quella tomba. Voleva farsi vedere felice, o perlomeno tranquilla.
Aveva promesso anche quello stringendo la mano della nonna, quel giorno in cui l'aveva accompagnata in ospedale per quell'ultima operazione che era stata purtroppo fatale.-Sii felice. Sii libera. Sii forte. E scrivi di te. E scrivi di noi.-
Le ultime parole della nonna l'avevano lasciata perplessa. Perché le aveva chiesto di scrivere di loro quando sapeva che la ragazza odiava parlare di sé? Forse perché aveva intuito che quello sarebbe stato l'unico modo per liberarla dal dolore una volta che fosse venuta a mancare? Aveva visto davvero così in la? Difficile dirlo, ma non impossibile. Affatto.
«Ti manca tanto, non è vero?»
La voce arrivò in una morbida carezza alle orecchie della ragazza, che si spostò pacatamente dal marmo, sciogliendo la posizione rannicchiata che aveva assunto, e si voltò verso il punto da cui era giunta quel richiamo: un'anziana signora stava sistemando dei fiori nella tomba accanto, e sorrideva dolcemente, sebbene tra le rughe si notasse una mestizia di fondo, che quasi faceva male a guardarsi.
Non era la prima volta che si incontravano, e la ragazza rispose con cortesia, salutando la donna, notando che i capelli apparivano forse ancora più ingrigiti dell'ultima volta in cui l'aveva vista. «Ogni giorno come il primo, e forse anche di più.»
Disse poi per rispondere alla domanda che le era stata posta poco prima.
L'anziana donna annuì con fare comprensivo, e tirò fuori uno dei fiori dalla tomba del marito per posarlo nel vaso della nonna, facendo nascere un moto di lacrime e commozione nel petto della giovane, la quale fece davvero fatica a trattenersi ancora una volta.
« Grazie mille. »
L'anziana signora scosse il capo come a dire che non era nulla, e con quel gesto regalò l'ennesima fitta al cuore della giovane.
Sembrava la nonna, con quel modo di minimizzare ogni cosa, perché non voleva mai essere ringraziata per ciò che faceva.
Ma forse tutte le nonne del mondo erano proprio fatte così, o almeno quella era una delle convinzioni che la ragazza si stava auto imponendo per superare il dolore. Rivedere negli altri qualcosa di colei che tanto aveva amato, fingendo così di avere ancora una piccola parte di lei in quel mondo tanto vasto e caotico.
La cercava nei sorrisi altrui, negli abbracci che di rado si permetteva di ricevere, seduta al tavolino del bar in cui la portava sempre a prendere il suo marocchino in tazza grande, nelle fotografie in cui si metteva sempre in posa.
La cercava ovunque, e quando era fortunata, riusciva anche a trovarla.
E un poco soffriva, perché ancora non l'aveva vista in sogno, come se lei le si stesse negando.
Che fosse arrabbiata per qualcosa? Ogni tanto se lo chiedeva, ma non trovava risposta alcuna, poiché per quanto trovasse riflessi di lei, non vi era più possibilità di udire la sua voce. E quella forse era la cosa peggiore.
Ancora una volta il filo dei suoi pensieri venne spezzato dalla signora anziana che ora la stava salutando. Ricambiò quei cordiali convenevoli per poi tornare ad appoggiarsi alla lapide, socchiudendo gli occhi.
« Scriverò di noi... ma solo perché ho paura che col tempo non riuscirò più a trovarti da nessun'altra parte. E se ciò dovesse accadere allora sarei persa del tutto. Perciò scriverò di te, dell'amore che mi hai insegnato, del dolore, della gioia, della malattia che ti ha portata via da me. Scriverò ogni cosa, perché non voglio dimenticare nemmeno un giorno di sole, né una notte di tempesta. Quando avrò finito però, mi aspetto di vederti almeno in uno dei miei sogni. Me lo devi nonna... manterrò tutte le mie promesse... ma tu torna da me almeno una volta, se puoi.»
Sulle ultime parole la voce si ruppe di nuovo, e la ragazza fu costretta ad alzarsi in fretta e furia, prima di spezzarsi davanti alla tomba, e rompere la sua promessa, una delle tante.
Percorse a ritroso la strada fatta prima, e quasi corse verso casa, come se potesse scappare dalla sofferenza che l'aveva avvolta, facendo piovere lacrime amare sul suo viso.
Ma non poteva fuggire davvero, quel macigno lo aveva dentro, come un piccolo mostro che si nutriva di tutte le cose belle, gettandola nello sconforto più cupo.
E se l'unico porto sicuro in cui si era sempre rifugiata quando il mondo le crollava addosso non c'era più, da chi sarebbe andata ora?
Non le restava altro che un cuscino da stringere al petto, e una voce registrata sull'audio del cellulare, che ripeteva sempre le stesse tre parole.
E poi c'erano quei ricordi che avrebbe trasformato in storie scritte.
Non importava quante lacrime avrebbe dovuto versare nel farlo, quanto a fondo avrebbe dovuto scavare, quali paure avrebbe dovuto affrontare.
Avrebbe scritto di loro, così il ricordo di lei non sarebbe svanito mai.
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Racconti pubblicati con Historica Edizioni
General FictionIn questo spazio voglio raccogliere i racconti con cui ho partecipato ai vari concorsi indetti dalla casa editrice Historica Edizioni, e che hanno avuto la fortuna di essere pubblicati in un'antologia cartacea, anche se in realtà per ora sono soltan...