Dottor Vita, Dottoressa Morte, grazie di avere accettato il nostro invito.
Grazie a voi di averci invitato.
Nell'anno 2082 vi sono persone ancora scettiche in merito alla vostra unione sentimentale. Dicono sia stata tutta una messa in scena, una questione di marketing.
Refusi del passato.
Ci sono soggetti che faticano a scindere l'aspetto lavorativo dalla vita di tutti i giorni. A queste persone mi sento di citare solamente il fatto che giusto ieri abbiamo festeggiato sessant'anni di matrimonio; mica briciole.
Accidenti; complimenti.
Sessant'anni che lo sopporto, pensi.
Poco fa vi ho introdotto con i vostri nomi d'arte. Preferite essere chiamati con i nomi reali?
Lascio decidere a lui. Si considera l'artista della famiglia.
In realtà fa decidere a me, semplicemente per rinfacciarmelo poi a casa.
Non è vero.
Certo che è vero; difatti adesso sarai tu a decidere. Vediamo cosa combini.
Testa dura. Penso che i nostri nomi reali siano più adatti alla situazione.
Benissimo. Allora questa sera abbiamo con noi
Come se i nostri nomi reali non fossero già conosciuti! Questa sera abbiamo l'illusione di essere in uno studio radiofonico: etere sonoro lasciato in aria in attesa che qualcuno lo colga. Preferirei essere citato col nome d'arte.
Visto? Sempre la stessa storia: si incavola perché faccio decidere a lui, poi quando finalmente esprimo una decisione, se questa non combacia perfettamente con ciò che avrebbe fatto, mi corregge perentoriamente. Proprio un bel tipo.
Scusate la domanda: come avete fatto a stare assieme tutti questi anni?
Guardi: a volte me lo domando anch'io.
Queste sono scaramucce. Robetta, se confrontata a tutto ciò che abbiamo passato.
Parliamo di vita: l'argomento principale delle vostre carriere.
La mia vita professionale è stata incentrata sull'accettazione della morte. Mio marito ha trattato invece l'inizio della vita.
Studi che vi hanno portato poi a molte soddisfazioni. Quando vi siete conosciuti avevate già un'idea del dove sarete arrivati?
Nei primi anni del secondo millennio, all'incirca nel 2020 mia moglie - allora non lo era ancora - si era da poco laureata in oncologia. Siccome sono più vecchio di lei di qualche anno, ero già un normale pediatra che sgomitava tra i colleghi per trovare spazio alla luce del sole. E' la tua storia; continua tu.
Finita la specializzazione in oncologia, sinceramente non sapevo se sarei andata oltre: durante lo studio della mia tesi, ho avuto modo di trascorrere molto tempo in reparto e la situazione era a dir poco deprimente: regnava una soffocante rassegnazione. Anche se esistevano dei corsi specifici che preparavano l'oncologo ad affrontare l'aura di ineluttabile che vagava come uno spettro tra i letti dei pazienti, nessuno riusciva ad abituarvisi.
Persino i direttori del complesso ospedaliero provarono a metterci del loro. Tra le tante iniziative, ricordo fecero ridipingere le stanze con tonalità di colore più rilassante, di modo da infondere una certa positività. Invano: solo un cieco non si sarebbe accorto delle morti e del ricambio ininterrotto dei parenti in lacrime nella sala d'aspetto.
Al tempo non esisteva ancora una vera e propria cura. Iniziavano ad uscire delle metodologie mediche ma erano ancora tentativi. I nostri incubi si chiamavano cancro al cervello, alle ghiandole linfatiche, al fegato; in questi casi il paziente era spacciato.
Di fronte alla miriade di questi casi in cui cellule del corpo impazzivano per fiorire come dei cavolfiori, eravamo semplici osservatori, dispensatori di cocktail di farmaci nell'attesa del momento in cui avremmo dovuto somministrare la morfina per il trapasso.
Consegnai la mia tesi di laurea, fermamente convinta che le armi in mio possesso fossero semplice aria fritta.
La conobbi proprio in quel periodo, ad una festa universitaria. La malinconia la stava schiacciando. Anche se il dibattimento interno la straniva, mi piacque subito. Risaltava.
Personalmente invece ero in una situazione migliore. Paradossalmente il lavoro del pediatra era esercitato più su un piano carrieristico, che di professionalità vera e propria.
Tutti noi pediatri eravamo cresciuti ed esercitavamo con un unico obbiettivo: riuscire a raggiungere il massimo livello di carriera possibile. L'apice massimo a cui aspiravamo era ovviamente divenire primario del reparto; disporre liberamente del potere, spostare persone e mezzi, riuscire a parlare direttamente con tutti gli alti papaveri del complesso ospedaliero.
Tengo a precisare il fatto che non ero a meno degli altri; in me però qualcosa mi lasciava con l'amaro in bocca. Anche se avevo comunque di che rallegrarmi per essermi distinto agli occhi del primario, rincasavo insoddisfatto come se non fossi riuscito a compiere tutto ciò che la coscienza mi stesse consigliando.
Poi ho trovato la donna che sarebbe divenuta mia moglie e tutto cambiò. In meglio.
Quindi in un certo senso, né l'uno né l'altro sapevate con certezza che cosa sarete divenuti.
Prima di incontrarlo, ero convinta di avere sbagliato su tutti i fronti. L'idea era di scegliere qualcosa di diverso dalla carriera medica. Lasciare quel mondo, regarmi magari in uno di quei deliziosi paesi montani per avviare un esercizio commerciale. Una rosticceria, una gelateria.
La rosticceria! Ricordo perfettamente quando me lo confidò; eravamo ancora ai primi tempi della nostra storia: un'ipotesi sconcertante. Non per la natura del lavoro in sé - a riguardo nutro profondo rispetto per tutte le brave rosticcerie del mondo -, quanto perché pensare di gettare nel fango tanti anni di faticoso studio proprio nel momento in cui si sarebbe dovuto riscuotere il frutto, era quanto di più estraneo e sciocco avessi mai sentito.
Leggo dalla biografia ufficiale: prima ancora di anche solo intuire le ipotesi che ci avrebbero portato a tante soddisfazioni, eravamo già innamorati. Molto poetica, se posso dare un mio giudizio.
E' la verità.
Guardi: dall'alto dei miei quasi novant'anni le posso confessare di ricordarmi quasi nulla degli anni prima di conoscerla. Tanto per farle intendere l'importanza del nostro incontro nell'intero disegno della mia vita.
La mette in questi termini perché vuole nascondere il fatto che mentre io ero corteggiatissima, a lui non andava dietro nessuna.
Questo è vero.
Eppure lei, anche se corteggiata, alla fine lo scelse. Cosa la colpì?
Era bravo con le parole. Poi era brillante, sicuro di sé, spigliato ma quel naso, perdiana quale affronto al mio gusto!
Sono sessant'anni di convivenza e sessant'anni che insiste mi sottoponga ad un intervento di correzione. Il mio naso non si tocca; lo ribadisco una volta in più. Cosa ne pensa lei dei mio naso?
Ehm. Sono un semplice intervistatore, non un opinionista.
Bravo; risposta saggia. E' un permalosone tale.
Comunque di lui mi incuriosì il fatto di trovare il mio stesso senso di insoddisfazione. Anche se meno plateale, trapelava in sottofondo. E poi la follia. Impossibile non innamorarsene.
Follia?
Sicuramente i lettori della nostra autobiografia l'avranno certamente letto: la nostra unione iniziò essenzialmente per gioco: una sera in cui ci eravamo messi d'accordo per un aperitivo, mi chiese di accettare una scommessa: se tra dieci dieci anni non saremmo stati almeno sposati, gli avrei pagato una cena di pesce al Rivoli, altrimenti l'avrebbe pagata lui.
Lo conoscevo appena; poi non mi piaceva nemmeno tanto. Una cena gratis al Rivoli chi l'avrebbe mai rifiutata? Accettai la scommessa sicura di vincere. Ed invece eccoci qui anche dopo sessant'anni.
Buonissimo il pesce al Rivoli. Glielo consiglio.
A quel ristorante mi sono avvicinato quel tanto da leggere i prezzi sul menu all'ingresso. Esorbitanti.
Faccio ancora fatica a credere al numero di zeri del semplice branzino ai ferri. Un ladrocinio.
Continuiamo oltre. A quanto vedo, le date delle vostre prime scoperte sono più o meno dello stesso periodo. Quanto dell'uno e quanto dell'altro ha influito sulle scoperte, rispettivamente - e qui perdonate il gioco di parole -, dell'altro e dell'uno?
Il segreto sta tutto nel letto matrimoniale.
Eccoteli lì: dalla bocca di due personaggi di alta cultura uno si immagina debbano uscire parole illuminanti, frasi eleganti, concetti rivoluzionari ed invece la solita conclusione: letto matrimoniale.
La vita di professionisti come noi non comprende molto spazio per l'ambito familiare. Riunioni, pazienti, coordinazione, meeting, consulenze sono tutti appuntamenti a cui non ci si può sottrarre. Questo tutto a discapito del tempo da dedicare alla famiglia.
Da quando abbiamo scelto di intraprendere la nostra professione, sapevamo saremo stati sempre molto affaccendati. Tolti i giorni festivi, gli unici momenti in cui potevamo essere in intimità erano soprattutto la notte, quando rincasavamo per mettersi a dormire.
Conservo gelosamente tutte le nostre fotografie. Ve ne sono alcune in cui ho delle occhiaie pazzesche.
Novantanni senza perdere la voglia di fare il trasgressivo. Lo amo anche per questo, anche se a volte esagera.
Se posso essere indiscreto, i vostri quattro figli sono nati suppergiù nello stesso periodo delle vostre scoperte.
Effettivamente questa è un'affermazione indiscreta ma abbiamo vissuto abbastanza da non offenderci. Il fatto compiuto comunque è quello.
Ho un ricordo vivissimo di quel periodo. Appena rincasati ed aver salutato Dolores - la nostra tuttofare a cui mando un saluto ed un abbraccio -, ci rintanavamo frettolosamente in camera. Discutevamo della giornata, di come superare le difficoltà, consigliandoci l'un l'altro sulle problematiche del giorno dopo. Avevamo tutti e due l'idea di una missione: migliorare il nostro lavoro.
Non è stato detto però come Dottoressa Morte tornò ad esercitare. Ero rimasto all'idea della rosticceria.
Anche questa una promessa; diciamo pure una scommessa. Una semplice ma non banale scommessa che ho stipulato praticamente a mia insaputa.
A volte mi domando perché al posto di fare il pediatra non mi sia dedicato a questo mio talento: scommettere sulla corse dei cavalli. Sarei ricchissimo.
Avresti perso anche le mutande. Facile vincere contro di me.
Sarà.
Stavamo parlando di una scommessa.
Si, certo. Tutto gravita attorno allo shock prodotto in lui quando gli avevo confessato il mio proposito di aprire una rosticceria. Non riusciva proprio a farsene una ragione. La situazione esatta la ricordo perfettamente: non eravamo nel letto matrimoniale ma comunque sotto delle coperte.
Non divagare.
Lasciami parlare; volevo dare un contesto. Quel giorno ero stanchissima per non so quale motivo.
Sarà stato il periodo in cui lavoravi al supermarket.
Volevo addormentarmi, le palpebre mi si stavano chiudendo e il furbacchione riuscì a strapparmi la promessa. Ha presente quando il cervello inizia a dare segni di cedimento, il corpo non ne vuole sapere e i muscoli si rilassano?
Il qui presente - mio marito - riuscì a chiedermi: Prometti di tornare a fare l'oncologa? Ed io senza pensare troppo mossi un sì per sbarazzarmene.
Se era così stanca come afferma, poteva benissimo avere confuso le parole.
Il furbacchione aveva effettuato una bella e chiara registrazione. Mi aveva incastrato.
Dottor Vita, da una persona come lei quale bassezza!
Alt; qui una precisazione prima che gli ascoltatori si facciano un'idea sbagliata dell'intera vicenda. Premeditai il gesto ma per una buona causa: sapevo le enormi potenzialità della ragazza e volevo semplicemente impedire che queste potenzialità non venissero perse.
Discorso molto interessante. Quali erano queste potenzialità?
Mi ci volle del tempo per scindere l'aspetto sentimentale da quello professionale - ero pazzo di lei - ma non appena mi abituai alla follia di amarla, il mio punto di vista cambiò, restituendomi la verità sulla persona ma soprattutto del suo essere medico.
Adesso ha presente perché le dico che quest'uomo è un furbacchione? Perché mi conosce talmente bene da sapere che usando le parole che adopererà mi manderà in solluchero e non potrò controbattere.
E' quasi irritante quando lo fa di proposito ma d'altronde una sua qualità è quella di saper parlare.
Non sto scherzando; parlo seriamente.
Era un'oncologa delle migliori in circolazione, laureata con il massimo dei voti, lode e plauso pubblico dalla commissione degli esaminatori. Prima di escogitare un piano per farla tornare, mi bastò una rapida indagine in reparto per scoprire la grande stimata dai pazienti e dai colleghi; un astro nascente dei più fulgidi.
Cosa la contraddistingueva però da tutti gli altri? Il non sapersi accontentare, non essere in nessun modo passiva rispetto al sistema.
Spiego meglio: al posto di adagiarsi sugli allori, aveva condotto un eccellente lavoro ed aveva osato guardare avanti con occhio nuovo. Per questo aveva combattuto, aveva sofferto, si era abbattuta ed era rimasta schiacciata sotto l'apparente inefficacia delle cure.
Poteva accontentarsi di aver salvato comunque un buon numero di vite umane ma non le erano sembrate sufficienti! Capisce quindi quando le dico che in lei esisteva qualcosa di nuovo? Non era scesa a compromessi con la propria coscienza, neppure di fronte alle lusinghe del lauto stipendio e del blasone di lavorare in un affermato reparto di un complesso ospedaliero dei migliori.
Questo è il motivo per cui mi sono tanto affaccendato a farla tornare: non sarebbe mai riuscita a percepire da sola la grandezza che aveva dentro. Solamente un medico normale - in una situazione normalmente accettata come era la mia - poteva riconoscere questa sua grandezza e valorizzarla. Questa forse perché era un perfetto prototipo del medico che avrei voluto essere io: geniale, appassionato e mai pago.
Le fa ancora effetto sentirsi dire queste parole dalla persona che le è stata accanto per tutto questo tempo?
Lo stesso effetto anche dopo molti anni. Comunque probabilmente qualcosa di vero c'è, visti i risultati.
Il lavoro. L'accettazione della morte era un grosso tabù.
Era un terribile tabù perché era considerata una sconfitta. Le religioni del mondo avevano continuato per secoli a ribadire il concetto di qualcosa oltre la morte, di reincarnazione, di paradisi celesti ma non sono mai state veramente efficaci come avrebbero voluto. La morte faceva paura.
Forse la reincarnazione è stato lo stratagemma con cui sono riusciti meglio a fare accettare la fine della vita.
Certamente questo è vero ma anche i credenti della reincarnazione, di fatto quando si trovavano di fronte alla fine dei propri giorni venivano presi dal terrore.
La sua intenzione era di far comprendere la morte?
Assolutamente no. Forse nessuno ci riuscirà mai. Forse non volersene fare una ragione è una necessità naturale dettata dal senso di conservazione. Il nocciolo della questione comunque non era questo.
Qui leggo che inizialmente l'idea era quella di fare dei tentativi sui pazienti affinché questi potessero capire a cosa stessero andando incontro.
Quando decisi di provare con il mio primo paziente ero già mamma dei miei primi due figli. Ognuno ha la propria idea in merito; io sono convinta che divenire madre mi ha permesso di divenire più consapevole dei miei mezzi, maggiormente percettiva. Ero insomma pronta per il grande balzo.
Come andò il primo tentativo?
Nel peggiore dei modi. Il paziente impazzì dal terrore; urlò e chiese di essere trasferito in un altro complesso ospedaliero. Morì comunque all'incirca nel periodo in cui avevo ipotizzato, nelle modalità previste con il massimo strazio possibile suo e dei suoi parenti.
Soprattutto nei primi tempi, nel momento in cui decideva di fare un tentativo mi curavo di essere sempre presente. Alcuni pazienti potevano essere violenti e impossibilitati a comprendere: una situazione estremamente pericolosa.
Soprattutto i primi anni il pericolo di fraintendimento era elevato: il mondo d'altronde remava contro. C'erano per esempio un sacco di superstizioni che andava dal toccare qualcosa di metallico quando passava un carro funebre, all'andare con le mani all'inguine. Il problema dell'accettazione della morte esisteva ma pochi, pochissimi arrischiavano di sentirselo dire.
Lei conosceva però la bontà delle sue idee.
Le conoscevo e sapevo quanto era importante farle comprendere. Portare però una cartella clinica ad un paziente e dirgli espressamente, chiaramente e limpidamente che le sue speranze di vita erano nulle, non era per niente facile.
Erano idee rivoluzionarie.
Apparentemente si. Un bravo studioso di storia mi confessò che una pratica simile alla mia era stata esercitata presso alcuni monaci sino a un paio di secoli prima. Purtroppo per noi tale pratica è stata dimenticata, quindi in un certo senso la mia è stata una riscoperta.
Ricordiamo la sua prativa ha alleggerito lo strascico dei problemi psichici e comportamentali che si ripercuotevano abitualmente nelle persone più vicine al defunto.
L'oncologo adesso ha tutti gli strumenti per sconfiggere ogni forma tumorale esistente, quindi pochissimi ricordano che cosa fosse osservare una persona cara morire per un tumore incurabile. Il paziente rimaneva uomo sino a quando non imboccava la via del non ritorno. La macchina umana a quel punto prendeva il sopravvento sulla persona e come tale iniziava a guastarsi in più punti, sino a fermarsi.
Lo spettacolo offerto alle persone care era dei più terribili: una persona non più persona ma ridotta ad un pupazzo quasi irriconoscibile - rantolante, gonfia, immobile e percossa da terribili scuotimenti - in lento ed inesorabile spegnimento.
In me montava una rabbia quando vollero inculcarmi che l'oncologo doveva stare comunque sopra le parti, doveva registrare, rassicurare i parenti sapendo però tempi e modi della fine incombente. Perché non dicevamo loro che le armi in nostro possesso erano spuntate; perché non lasciare che questi sfortunati potessero vivere pienamente gli ultimi giorni della loro vita?
La sua fu una ribellione.
Non mi andava di mentire, di fare tutte quelle facce rassicuranti, dicendo le solite frasi che tanto avevo sentito ripetere dai miei colleghi. Eravamo abituati alla menzogna; non a fin di bene, solamente per essere a posto con la nostra coscienza. La nostra coscienza di medici e uomini però era sempre più compromessa e nessuno sembrava volerlo ammettere.
E' una donna magnifica. Sentitela. Facile innamorarsi di un angelo simile.
Certamente lei è stata una donna molto coraggiosa, se poi ha persino accettato di comparire in tribunale nel celebre processo indetto contro di lei da colleghi e parenti dei pazienti.
Un processo ingiusto perché totalmente mediatico. Nessuna delle persone prese in causa ebbe il tempo di abituarsi della pressione che gli cadde addosso.
Dottor Vita e Dottoressa Morte furono coniati proprio grazie a quel processo. Quando conobbi personalmente il giornalista a cui venne questa idea, mi rispose di avere dato il suffisso Vita e Morte semplicemente per dare un tocco scandalistico all'articolo.
Dottoressa Morte e Dottor Vita. Penetrò persino tra le pareti del tribunale; ricordi?: Dottoressa Morte entri in aula! E tutti a guardare morbosi il mio ingresso.
Tralasciando l'aspetto emotivo e sentimentale, anche se ero fuori dalla vicenda giudiziaria vera e propria, divenni una sorta di star anch'io. Fu una spirale verso il basso da cui solo per miracolo riuscimmo ad uscire.
Un'esperienza quasi interessante, antropologica, se non fosse per la vicenda che stava dietro.
Mass Media è una parola ad oggi con scarso significato. Oggi tutti possono esprimere ciò che vogliono con visibilità massima ma a quel tempo vi era ancora l'illusione che un buon giornalista di un grande giornale fosse una persona sopra le parti e quindi - pensi l'assurdità - addirittura obbiettivo.
Durante la prima udienza eravamo in pochi. Io, gli accusatori, la giuria e un unico giornalista; non era una vicenda così interessante. Purtroppo l'unico giornalista presente era capace di confezionare articoli efficaci. Fiutò la possibilità dello scoop, forzò la mano e andammo in seconda pagina.
Quanti giornalisti sono venuti dopo! Giovani e altri più attempati, avevano addosso le stimmate disgraziate degli uomini senza speranza. Accorsero a frotte. Mi facevano una tale pena: le redazioni dei grandi gruppi editoriali avevano promesso che sarebbero stati assunti se avessero scoperto un grosso scoop. Per molti di questi diventammo semplicemente la vicenda con cui trovare un lavoro stabile; e scommetto che a molti di questi non gliene importava nulla della vicenda stessa. Semplice e puro lavoro.
A questo punto penso sia doveroso elencare qualche pillola sulla vicenda giudiziaria. A seguito dello studio di Dottoressa Morte, parenti di persone decedute e oncologi a lei - in quale modo - avversi hanno pensato di indire una causa comune. Dottoressa Morte a questo punto avrebbe potuto percorrere due strade: rifiutare di comparire in tribunale - di fatto accettando di ritirare lo studio - oppure comparire in tribunale ed accettare un confronto.
La interrompo un attimo. Preme sia detto che prima di decidere se comparire o meno, mia moglie andò di persona a parlare faccia a faccia con alcuni degli oncologi che l'avevano citata in giudizio e loro stessi affermarono l'intento intimidatorio. Questo per farle comprendere lo spirito con cui erano state formulate le accuse.
Voleva essere un bluff per farmi tacere e si sono trovati in mano una patata troppo bollente da tenere in mano.
Come già detto prima, a seguito della comparizione di Dottoressa Morte uscirono degli articoli sui media più in voga del momento.
Fosse stato adesso, col cavolo si sarebbero impicciati tanto: le guardie avrebbero fermato i giornalisti fuori dalla porta.
Ho letto un articolo che definiva la vicenda come La perversione mediatica del Secolo.
Altra definizione messa lì per fare scalpore. Erano altri tempi; diciamocelo pure.
Centinaia di giornalisti hanno fatto in modo di intromettersi in tutti gli aspetti della nostra vita privata, bombardando i cittadini con un fuoco mediatico tale, da fare in modo che lo stesso lettore si sentisse preso in gioco! In tempi precedenti qualcuno l'avrebbe definito Lavaggio del cervello ma allora era una pratica abbastanza usuale.
Fosse stata almeno cronaca giudiziaria! Arrivarono a frugare nella nostra spazzatura e riuscirono - pensi la bassezza - a fare esaminare un pannolino sporco di mia figlia. Nel momento in cui hanno avuto in mano l'analisi chimica degli escrementi della mia bimba, tutti a ricamare!
Questo fu certamente una perversione. Ma ripeto: secondo me il problema non è stato tanto il giornalista in sé e per sé, quando la debolezza della giuria, del giudice in particolare, di fronte alla marea di supposizioni provenienti da tutte quelle penne.
Il tutto si ripercosse anche nella vita di tutti i giorni. Vicini, persone normali volevano improvvisamente sapere, criticare; alcuni dimostrarono la loro solidarietà, altri cambiavano marciapiede. Vi fu il traviso generale. Sino a quando qualcuno esagerò e ci minacciò di morte. Da quel punto ci fu affidata una scorta.
Incarcerare mia moglie è stato il caso emblematico dell'irragionevolezza di quel momento: il giudice, stimolato da così tante pressioni, aveva letto da qualche parte del ritrovamento di un fantomatico biglietto aereo, intestato a mia moglie non ancora vidimato. Si era quindi convinto che volesse fuggire e ordinò l'incarcerazione preventiva. Era incinta del quarto figlio.
Mancai di nulla una aborto spontaneo; Albert difatti è nato dentro le mura di quel carcere.
Una vicenda disumana.
Non so quanto sia stata disumana; paradossalmente fu proprio mio figlio da allattare ad intervalli regolari, l'appiglio verso una realtà al di fuori delle mura.
La vicenda è citata sul maggiori libri di giurisprudenza: pur essendo l'indagata, vi era stato un vizio di forma per cui l'accusa era riuscita ad impedirle di testimoniare. Dopo molta insistenza, l'avvocato riuscì ad ottenere che lei parlasse.
Se posso intromettermi, questa è una sintesi anche troppo stringata. La vicenda in realtà fu abbastanza articolata.
Ha voglia di spiegarla al pubblico in ascolto?
Certo. Quando vidi mia moglie ammanettata e portata incinta nelle carceri, persi la ragione. Dopo avere consultato il nostro avvocato, seguii una mia strada.
Le considerazioni che mi spinsero a fare un tentativo estremo erano abbastanza banali, quasi matematiche: se nel gruppo di accusatori vi erano una cinquantina di parenti, che ne erano stati di tutti gli altri? Mia moglie esercitava già da sette anni, quindi possibile vi fossero solamente cinquanta persone? Mi convinsi dell'esistenza di altre che avevano tratto beneficio, persino riconoscenti del metodo di cura. Volevo queste persone a testimoniare.
Iniziai così la mia ricerca.
Un progetto anche questo temerario.
Temerario perché si fondava sull'infrazione del segreto professionale. Infrazione cui poi venni condannato e per cui pagai una multa molto salata. Ma accidenti mia moglie aveva appena partorito in carcere!
Misi in macchina i miei due figli maggiori e andammo a suonare a svariate centinaia di campanelli.
Chiedevamo semplicemente: siamo venuti per chiederle di testimoniare a favore di mia moglie. Ve ne erano alcune la cui suscettibilità era stata urtata e ci risposero anche sgarbatamente ma molte altre accettarono. Questo continuando a scartare il rigore della scorta e lo stuolo di giornalisti assiepati in ogni dove.
Dall'interno del carcere guardavo i quotidiano e vedevo le foto di mio marito e i miei due figli che stava suonando a porte sconosciute. Mi chiedevo: che diavolo sta combinando?
Perché anche i figli?
Bisognava fare in modo che le persone si ammorbidissero. Capibile una certa diffidenza da alcuni di coloro che non avevano appreso appieno il progetto di mia moglie. Solamente addolcendole sarei potuto riuscire a farle riflettere. Trovarsi di fonte un bimbo era un bel modo per sentirsi rispondere almeno decentemente.
Uso dei figli insomma.
Per una buona causa. Raccontato loro che eravamo un bucaniere in compagnia di due galeotti a bordo del proprio vascello. Alle calcagna avevamo navi governative, nel mare di fronte a noi, altri bucanieri che volevano farci la pelle. Eravamo diretti verso tutta una serie di isole sconosciute in cui avremmo potuto trovare rifugio ma anche altre popolate da popolazioni ostili.
Pensi che matto.
Sono una persona fortunata proprio perché sono circondato da persone che capiscono quando decido di compiere questo tipo di follie. I miei bimbi avevano inteso la menzogna ma avevano compreso anche che stavo tentando di rimettere a posto le cose.
Ricordo solo il mio avvocato entrare nella piccola stanza dove avvenivano gli incontri con un sorriso a metà tra il contento e l'incredulo. Mi disse: suo marito - non so come - è riuscito a convincere almeno duecento persone a testimoniare a suo favore. Prepari il vestito della festa che in meno di una settimana tornerà a casa.
Veniste quindi prosciolti.
Lo sregolato e gigantesco castello di carta costruito in mesi di incontrollate indagini - per lo più - giornalistiche si sciolse come neve al sole.
La verità che portavano quelle persone era lampante: grazie all'azione informativa, i pazienti si erano sentiti padroni dell'ultimo tratto della loro vita e in qualche modo sollevati. A scanso di cure dell'ultima ora, sapevano come e per che cosa sarebbero morti. Quanti casi di alta umanità!
Furono testimonianze molto toccanti. Ricordo per esempio una signora scagliarsi contro la giuria a male parole, affermando e ribadendo che dovevano essere loro i delinquenti da incarcerare, non Dottoressa Morte.
La vostra associazione, ricordiamo, aveva già al tempo istituito un centro di controllo e recupero per le persone colpite da una recente scomparsa.
Vero. Adesso essere seguiti dopo la scomparsa di un caro è la normalità ma al tempo anche il concetto di gestione psichica e fisica di questo tipo di persone era un concetto rivoluzionario.
La cultura di morte, la dispensatrice di morte; avevano calcato la mano.
Per poco quella mano poteva rovinare la vita della mia famiglia, pensi.
Starei qui ore a parlare con voi ma purtroppo il tempo a nostra disposizione è finito. Un'ultima battuta ai nostri telespettatori?
Amore e pensiero sono due aspetti che fanno grande l'uomo.
Commerciale come battuta.
Sarà commerciale ma con noi è funzionata. Ricordi che abbiamo novantanni; qualcosa avremmo dovuto pur imparare in tutta questa vita.
Ringraziamo e salutiamo Dottoressa Morte e Dottor Vita. Vi auguro una buona serata e alla prossima puntata di FutureIsNow!
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Interviste dal futuro
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