Capitolo quattro

9.4K 182 4
                                    

La mattina dopo decisi di uscire da casa quando Alejandro dormiva ancora, per evitarlo il più possibile. Era davvero un uomo di cui avere paura, ma io non ne avevo affatto. Io cercavo di stargli lontano solo per non discutere con lui e rischiare di rimanere con qualche arto dolorante. Lui non mi faceva paura, ma le ossa intere volevo sinceramente tenerle strette ai miei muscoli.

Così, grazie al gps della mia modesta auto, ma non costosa come quella di Lauren -per non dare nell'occhio ad Alejandro-, arrivai alla JaureguiEngines. Un edificio di Miami con circa cento piani. Una struttura ben salda, con un investimento sicuramenre molto notevole. Ancora mi chiedevo come avesse fatto Lauren a costruire quell'azienda a soli ventitré anni.

"Salve, vorrei un appuntamento con Lauren..." non ricordai il cognome, forse non me lo aveva nemmeno detto, oppure era semplicemente un vuoto di memoria.

"Jauregui" disse la donna, che dietro un bancone scriveva tutti gli appuntamenti. Sembrava disordinata nella sua agenda. Forse perché Lauren non aveva ancora trovato una segretaria e aveva affidato a quella donna il compito?. "A quanto pare in questo momento non ha alcun lavoro da svolgere. Può salire. Ultimo piano, centodue, prima porta, di fronte" spiegò e io annuì, prendendo subito l'ascensore.

Ad ogni piano, a causa del vetro trasparente, vedevo le persone camminare dignitosamente, con addosso qualche vestito firmato ed elegante. Sembravano sereni, tranquilli e forse anche felici. Chissà, forse era solo il modo giusto per comportarsi a lavoro. D'altronde io che ne sapevo? Non avevo un lavoro dignitoso come quello.

Bussai tre volte dietro la porta di legno, sicuramente pregiato. Sopra era marcata la frase JaureguiEngines Ufficio Lauren Jauregui. Sentì la sua voce darmi il permesso, e allora entrai.

"Hey" salutai informalmente, sperando che non se la prendesse. In fondo, come potevo trattarla in modo formale dopo la discussione curiosa e misteriosa del giorno prima? Era evidente che fosse entrata in confidenza con me, o almeno credeva. In realtà non conosceva davvero niente di me, e lei non mi trasmetteva niente se non curiosità e mistero.

"Buongiorno Camila" salutò Lauren, ignorando la pila di fogli che pochi secondi prima sembravano occupare i suoi pensieri. "In questo momento ho molto da fare, credevo che Ariana avesse compreso, ma a quanto pare fare la segretaria momentaneamente non le dona molto" ridacchiò piano. "L'unica cosa che posso dirti allora, per accorciare i tempi, è che puoi iniziare a lavorare già da domani. Ti pagherò mensilmente, trecentocinquanta dollari. Purtroppo con gli orari non posso assicurarti niente : lavorare in un'azienda significa lavorare duramente ogni giorno, con la media degli orari di lavoro in continuo cambiamento. Ti va bene lo stesso? Se sì ti dò il mio numero e mi fai sapere stasera" fu sbrigativa.

Gli orari furono un punto a sfavore, e i soldi non mi importavano : io ne avevo già abbastanza; però dovevo comunque accettare quel lavoro.

"Va bene"

Mi passò un bigliettino con sù la sua e-mail e il suo numero di cellulare.

"A domani, speriamo"

La sua frase uscì strana, come una sfida, ma decisi si non darci tanto conto e di andare via.

"Speriamo" risposi io, uscendo.

Quella ragazza aveva qualcosa che non andava. Qualcosa che volevo assolutamente conoscere. I suoi occhi... di rado cambiavano umore, mostrando per qualche secondo, un'anima diversa da quella che lasciava solitamente trasparire.

Quando tornai a casa e aprì la porta, chiusi immediatamente gli occhi, cercando di mantenere la calma.

"Dove sei stata?" la sua voce era graffiante, fastidiosa.

"Dove non ti importa" dissi superandolo, ma lui fu abbastanza veloce da prendermi dal colletto e farmi indietreggiare. Stava rischiando di affogarmi. "Dimmi dove sei stata" scompose ogni parola con i denti stretti, vietando il mio spazio sociale, avvicinando il suo viso orribile al mio. "Dimmelo!"

"Fatti i cazzo tuoi!" urlai, poco paziente.

La mano che aveva sul mio colletto la strinse, e mi trascinò facendomi sbattere contro il muro.

"Cosa hai detto?"

"Fatti i cazzi tuoi!"

La sua mano mi arrivò in pieno volto varie volte. Il mio viso non tardò a sanguinare. Sperai soltanto che non trattasse alla stessa maniera il resto del mio corpo, se no non avrei potuto lavorare su GameOnSex. Purtroppo però mi sbagliai. In pochi minuti, mi ritrovai con il petto contro il muro, il sedere e la schiena rossi per i colpi di cintura.

Non piansi nemmeno per un attimo. Nessuna lacrima scese sul mio viso. Il mio corpo lo aveva distrutto, e faceva male, sì, ma quando picchi una persona che del cuore ha solo i cocci, non c'è niente da fare.

Quando tutto finì salì in camera, e non potei fare a meno di ricordarmi della poesia che anni prima mia madre scrisse.

Fredde mani
Grezze dita
Modi strani
Una ferita
Cuore a metà
Fessure nel cuore
Per la sazietà
Di chi ama dolore
Pianti tra i cuscini
Triste realtà
Non fanno niente i vicini
-chissà come sta-
Mani robuste
Corpo pesante
Senti le fruste
Ti senti distante
Adesso stai bene
Senti la quiete
-Non ci sono più catene-
Ripete, ripete
Una rondine adesso vola
Dove il mondo non arriva
Ti sentivi soltanto  sola
Il tuo corpo moriva
-Vola nel cielo-
-Adesso hai la tua libertà-
Non sentirai il gelo
Mostra la tua agilità.

Mi permisi di piangere. Mi permisi di tirare pugni al muro, di dare calci alla scrivania, di far sbattere la sedia contro il muro. Mi permisi di arrabbiarmi. Mi permisi di odiarlo. Di odiare Alejandro. Di amare mia madre.

GameOnSex ➳ CamrenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora