Sono stanco, e solo. Forse perché il destino mi costringe a procedere lungo questo sentiero cosparso di giade. Il bosco scuote le fronde; gli usignoli cantano di amori futuri. Amori... che non proverò mai più.
È una notte inconsueta questa: il cielo pullula di stelle che si nascondono dietro veli d'aurora. Il vento quasi mi accarezza, sfiorandomi le labbra per un ultimo, malinconico bacio.
Odo un ruscello: il suo sciacquio mi pervade; quasi instilla in me un'inattesa brama di giovinezza. Così come l'aroma dei lillà che la mia memoria ha cancellato, ma l'immaginazione custodito.
C'è malinconia in quest'aria: la mia. Ella mi carezza il cappello, mio fidato compagno di solitudine. La valigia invece, mia nemica, consunta dal tempo ma con il manico ancora ben stretto fra le dita. Quando finirà questa tortura? Arriverà mai il momento della redenzione?
Forse sto vagando nell'eternità. Sento i suoi secondi rintoccare di passo in passo, quasi a ricordarmene l'efferatezza. Eppure, per quanto ci provi, mai vincerà l'odio verso questa mia valigia: il suo peso aumenta; il braccio che la sorregge si logora. Forse perché è parte di me?
Sollevo il capo: tralci di rampicanti mi occludono la vista del cielo. Vogliono impedirmi di sognare, e queste giade scricchiolanti, di volare. Ma io lo desidero.
Finalmente l'uscita del bosco. Un miracolo? Non importa: ora posso respirare l'aria di questo limbo senza tempo. E i miei occhi incavati scorgere una piccola collina: la sua vetta tocca il cielo.
È assai ripida, la collina, ma d'altronde quale esistenza non lo è? Fin dalla nascita siamo vittime di forze inaudite e misteriose che sbattono e infuriano sui nostri deboli cuori, pronte fin da subito a negarci il dolce nettare della vita. E frementi... a rifilarci la nostra valigia.
Mi trovo ai piedi della collina. Spero di farcela. La mia ventiquattr'ore sta diventando un macigno; non mi impedirà però di raggiungere la cima. Ora che ne sono in prossimità il corpo inizia ad avvizzire. La pelle va rivelando i muscoli, i muscoli le ossa, finché, lo so, di me rimarrà soltanto il nulla.
Poi lassù, una tomba. Non ha nome, né età, né proprietario. Lei è sola, vuota, come lo sono io. Entrambi siamo naufraghi della morte. Che questo sia il momento? Che sia arrivata la fine?
La osservo ancora. Mi giro. Ho la sensazione che il bosco si agiti; le giade brillino: fremono dalla voglia di vedermi sepolto?
D'un tratto il cielo si schiude. Dio? No... Sei tu che scrivi; sei tu che leggi. Cosa ti ha spinto a giungere tra queste mie disperate parole?
Guardami... Ormai di me rimane soltanto che il ricordo sbiadito di questo scheletro. Però la mia ventiquattr'ore... Quella no, è tutt'altro che scomparsa.
Percepisco il tuo desiderio: devo aprirla, non è così? Aiutami allora... perché forse siamo in procinto di dirci addio.
L'ho appena aperta. Cosa... sono? Scorgo un baratro di tenebre dentro di essa, e occhi cremisi, e bocche sibilline di bestemmie raccapriccianti, e mani che piangono sangue, e—
Chiudo la ventiquattr'ore. Le ho riconosciute: sono le mie colpe.
Senza preavviso una forza ignota mi irradia. Posso liberarmi di loro?
Guardo ancora la tomba. Solo ora ne apprendo il significato: ella è una bocca affamata... che desidera trangugiare i miei sbagli.
Aumento la stretta sul manico. Seppellisco la ventiquattr'ore, che scompare.
Per un'ultima volta alzo lo sguardo verso il cielo, ormai distante una manciata di metri. Sta accadendo qualcosa di magico nell'universo di queste parole. Io ti odo. Sento il tuo profumo solleticarmi le narici. Intravedo le dita della tua mano innocente... oltre questo stesso cielo, che nient'altro è se non un velo di Maya. Il nostro velo di Maya. Sì, mio scrittore. Sì, mio lettore. La verità è finalmente svelata... Io sono quello che cerchi dal tuo primo respiro, dal tuo primo vagito. Io sono la vita priva di colpe che hai sempre sognato. Io sono la tua anima, d'ora in poi, più che mai, libera.
