3. Me stesso

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«Ehi, figliolo. Perché te ne stai qui, solo soletto, mentre tutti si divertono sulla spiaggia» proferisce un uomo dietro di me, nel buio della notte.
Sono assorto in un caos di pensieri così mescolati fra loro da non riuscire più a distinguerne alcuno. Ho una mano poggiata sulla fronte per disperazione e con l'altra accarezzo il dolce e fresco terriccio sul quale sono seduto.
Sto sulla vetta più alta della Terra; non conosco quali paesaggi, lidi, paesi e mondi siano alle mie spalle, i quali da sempre per l'eleganza e l'attrazione assoggettano il volere umano. Tuttavia so di trovarmi qui, proprio durante questi secondi pervasi della gioia di cui il pianeta rifulge ma che, ai miei occhi, rappresentano nient'altro che una bugia.
La mente mi dà la possibilità di ripercorrere il passato, eppure quando provo ad accedervi fastidiose e fumose tenebre ostacolano la visione dei miei ricordi. Al contrario invece, questa notte il cielo è colmo di così tante stelle da rendere perfino il mio cupo sguardo, luminoso. Andromeda, Ercole, Idra e Pegaso sono le sole che conosco, ma secondo quanto mi sussurra l'istinto, di fronte a me ne risplendono almeno una trentina. Provo un bisogno frenetico di volgere i miei occhi lassù, verso quei mondi irraggiungibili, bagnati da qualche lacrima che proprio non riesco a trattenere e con la speranza che qualcuno giunga qui e si accorga di me.
A quanto pare, egli mi ha raggiunto, chissà da dove, chissà con quali intenzioni.
     «Non fingere di non avermi udito, giovanotto. Io sono qui solo perché lo hai voluto tu.»
Senza dubbio una voce familiare, ma credo sia soltanto una coincidenza. Tale e anomalo evento dovrebbe sconvolgermi, mandare in tilt i miei circuiti mentali; mi dovrei forse alzare, mettermi in guardia ed osservarlo dritto negli occhi per constatare chi mai egli sia?
Sì, avete ragione; devo agire in questo modo, eppure qualcosa mi infonde sicurezza e la certezza che nulla di terribile mi accadrà.
Dirigo lo sguardo verso la spiaggia, dove mulinelli di folle si scatenano al ritmo di canti e balli tropicali assieme le fiamme delle fiaccole poste di tanto in tanto lungo la distesa di bruna sabbia della spiaggia. Mi sovviene allora la risposta all'iniziale quesito dell'uomo.
     «Non riesco ad essere felice. Scavo dentro di me ma non trovo quella spensieratezza che tanto invidio loro. Sono così numerosi da apparirmi puntini gli uni uguali agli altri. Possibile non se ne preoccupino? Che non importi loro di sentirsi qualcos'altro?»
     «Forse ho capito cosa intendi. Tanti anni fa provai una sensazione identica alla tua, e stavo proprio qui, dove ora sei tu seduto.»
     «Davvero? Tu sai sul serio di cosa io stia parlando?»
     «Naturalmente, mio malfidato ragazzo. Non sei nè il primo nè l'ultimo.»
Di nuovo quella familiarità... e ancora una volta non azzardo a voltarmi. Al momento non me ne sto rendendo conto, ma una parte del mio io desidera ardentemente prolungare l'attesa, il desiderio di conoscere questo uomo comparso dal nulla ed ora rivoltosi a me.
All'improvviso, da est soffia una meravigliosa brezza marina con un pizzico di salsedine che accarezza la pelle in parte screpolata del mio volto, inducendomi a sigillare gli occhi e lasciar spazio al buio fittizio dentro me e generato dallo spaesamento del mio già frivolo animo. Comincio a sorridere senza un particolare motivo, travolto da una misteriosa eccitazione che accolgo con tutto me stesso mentre i balli e canti e strumenti musicali aumentano il volume delle rispettive intonazioni fino ad esplodere nell'armonia più celestiale che abbia mai udito.
Mi alzo e lascio al mio corpo carta bianca nei movimenti, sollevando mani e sguardo al cielo finché non danzo anch'io.
Nel frattempo, durante i miei vorticosi giri su me stesso, l'individuo rimane a guardarmi silenzioso come se già prevedesse i miei comportamenti e quelli delle stelle, ora anch'esse abbandonate a se stesse e piroettanti nella volta celeste.
Arriva la stanchezza, ed un respiro ansimante di frenesia che fa battere il mio cuore al pari di quello colmo della passione d'un innamorato nel chiedere la mano all'amata.
     «Questa si chiama felicità, figliolo. L'arrivo di una passeggera tempesta atta a scardinare ogni nostra incertezza, ogni male dannato, ogni vincolo che ci tiene legati alla vita quotidiana. È la forza da noi tanto cercata durante l'esistenza e che, soltanto per quell'attimo, ci rende Dee e Dei sognanti dei più mirabolanti miracoli. Tuttavia, entrambi sappiamo di quanto tu sia insoddisfatto di tali momenti poiché una parte di te è ben consapevole di esser incapace a raggiungere la sua svettante cima. Non è così?»
È una doccia fredda, e il ritorno di sogghignanti e nemici pensieri. Canti e balli diventano più lenti al pari di tentacoli d'un anemone nella piatta calma dell'oceano; le stelle tornano al loro posto così come la brezza marina smette di sospirare tra i miei folti capelli scuri. Avverto un peso improvviso sulla mia schiena al punto da costringermi a sedere di nuovo, a gambe incrociate, rivolto con lo sguardo verso la spiaggia sottostante la montagna, la quale a primo impatto mi appare meno fascinosa.
     «Non posso mentirti a quanto pare. E' vero, la solitudine scandisce a passi regolari la mia vita. Sono nel profondo così triste, così maledettamente bisognoso della mia parte mancante che sacrificherei me stesso per lei. Non so cosa o chi sia, ma sono consapevole che esiste ed il mio cuore ne pecca. Dimmi, sei tu?»
L'uomo non risponde. Al che, dopo alcuni minuti la speranza in me sovvenuta, scompare. Sono così debole, così instabile nel mio essere in bilico al punto da venir sballottato tra un'emozione e l'altra, conteso fra quelle entità fittizie e di sicuro opera d'inumano ingegno. Dunque colui alle mie spalle che ruolo ha in questo preciso frangente? Sono prigioniero del suo triste disegno o figlio sventurato del caso?
Aria silenziosa regna sulla spiaggia infervorata di turbini di sabbia aizzati da un vento ribelle. Il mio cuore grida i suoi lamenti, la rabbia per l'ingiustizia avvertita nella mia breve vita. Desidererei interrogare, urlando, quel cielo che fino a poco prima ho tanto amato e che ora odio per l'indifferenza a me mostrata sulle ragioni d'un simile destino.
Proprio quando ho la sensazione di perdere il controllo di me stesso, invaso dalla nefasta voglia di schiacciare le chiazze di petunie ai piedi e trasformarmi in un Orlando Furioso da nuovo millennio, l'uomo alle mie spalle avanza deciso senza lasciarsi impressionare dall'espressione di gelida pazzia sul mio volto, così intensa da spingermi a tentare di strapparmi i capelli mentre ogni corpo celeste, sebbene lontano, si nasconda fra le nuvole in arrivo.
     «Ora basta, Kris» sentenzia, adagiando la mano ferma sulla mia spalla.
Al contrario non riesco a fermarmi; mi è di fatto impossibile gestire la rabbia malandrina e ferita aperta nel mio cuore per la sensazione cieca di non essere voluto dal mondo, di non vedere corrisposto il mio bisogno di appartenere a qualcosa di più grande. Tutto sembra degenerare verso la tragedia poiché il baratro è a pochi passi da me, e la tanto amata sabbia tutt'altro mi salverebbe, frenetica nel desiderio di ingoiarmi fra le proprie morse turbinose.
C'è però un particolare da aggiungere: questa mano che nella sofferenza si protende anche a te, mio caro lettore, aiutandoti a rialzarti dopo esser caduto.
L'uomo mi afferra per l'altra spalla, e mi costringe a girarmi verso di lui. Di fisionomia simile e medesimo di altezza, la notte non ha la benché minima intenzione di mostrarmi la faccia, al che il mistero si infittisce mentre percepisco l'odore di supplica esser emanato dalla mia bocca.
E sullo scenario di pioggia e neve e pepite infuocate dagli astri, egli mi abbraccia con veemenza. Il mio corpo vibra per l'inattesa gabbia attorno, ma pian piano gli spasimi di furia diminuiscono finché non perviene in me una calma dal sapore di tristezza.
     «Non è giusto. Cosa ho di sbagliato? Perché sono così diverso al punto da non esser accettato da nessuno? Perché sono così incompleto?!»
Entrambi ci accomodiamo sulla lingua della cima della montagna. Io sono esposto verso il pianto caotico del cielo, egli invece ne mostra le spalle ancora con il volto oscurato. Non proferisce alcuna parola, piuttosto mi prende entrambe le mani finché non divengono un tutt'uno ed i nostri corpi non cominciano a fondersi. Lui prova le mie stesse emozioni, invaso dai miei stessi pensieri, intanto che mi sovviene una serie di fittizi e gelidi sospiri nell'animo.
     «E' tutto finito, ragazzo mio. Hai smesso di soffrire. Sei stato così accecato dall'idea dei tuoi mali da non accorgerti che non ti è mai mancato nulla, se non me. Sono sempre stato insieme a te, ma tu hai insistito nel credere che lì fuori, in quel mondo che ora ci sta cadendo sulla testa, ci fosse il tuo miracolo, la tua anima gemella che ti avrebbe completato. Eppure sarebbe bastato chiamarla e corsa subito da te, proprio come alla fine hai deciso. Quell'anima gemella sono io, Kris, ed ora, con un ultimo sforzo, hai la possibilità di vederla e sapere che non ti abbandonerà mai, neanche dopo la morte mentre vagherai nell'universo sconfinato. Basta avvicinarsi solo un altro po' e...»
E seguo così l'invito dello sconosciuto, sino a che il velo tenebroso non scompare lentamente dal suo volto. Quei capelli grigi, e la barba argentea, e le rughe, e il color degli occhi ed il neo sulla parte destra del mento...
«Perché questa somiglianza? Io... io non riesco a spiegarmelo. T-tu, chi sei?»
Alla fatidica domanda il cielo si tinge d'un primo e timido indaco, mentre per un insolito incantesimo della natura le petunie si trasformano in scintillanti fioralisi.
«L'unico essere umano di cui non potrai mai fare a meno. Io, figliolo, ovvero Kris Yung.»

ACCETTATI PER COME SEI, PERCHÉ QUANDO COL TUO VELIERO TI RITROVERAI IN UN MARE IN BURRASCA IL TUO "ME STESSO" SARÀ L'UNICO ALLEATO SU CUI POTRAI CONTARE.

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