2. OVERDOSE DI DOLORE
“Burn the witch, we know where you live. Red crosses in wooden doors.
And if you float you burn. Loose talk around tables.
Abandon all reason. Avoid all eye contact.
Do not react.
Shoot the messengers.”
(Burn the witch, Radiohead)
Tre mesi dopo
Svegliarsi nel proprio letto era una sensazione meravigliosa, Amabel doveva ammetterlo. Era tornata a Birmingham da due giorni, dopo aver trascorso un fine settimana a Londra con le sorelle. A Exmouth aveva ricevuto una lettera da Michael in cui le veniva comunicata la possibilità di rientrare, al che lei e Finn avevano fatto i bagagli e si erano precipitati in treno. Ormai era Settembre, a breve Evelyn e Diana avrebbero ripreso le lezioni, e lei doveva occuparsi della clinica. Ada l’aveva chiamata la sera prima per ragguagliarla sui nuovi pazienti, sui nuovi assunti e sulle condizioni dell’edificio, ma Amabel voleva controllare di persona. Si stava spazzolando i capelli quando la porta della sua camera si spalancò e sbucò il viso rotondo di Jalia. Era una ragazza di origine africana,di diciotto anni, orfana. Amabel l’aveva scovata a mendicare nei pressi della chiesa e aveva deciso di mettersela in casa per impedire che qualche lenone la gettasse in strada per vendere il suo corpo. Jalia aveva preso il posto di Bertha, anche se non sapeva cucinare bene e non era molto svelta nelle faccende di casa, però era di compagnia.
“Padrona, vi ho portato la colazione.” Esordì la ragazza posando il vassoio sullo scrittoio.
“No, Jalia, non chiamarmi così. Non sono la tua padrona e tu non sei la mia schiava. Ti prego, chiamami Amabel.”
Amabel si abbottonò gli orecchini di perle ai lobi, si allacciò l’orologio al polso e indossò il soprabito.
“Andate a lavorare senza mangiare, signora?”
Jalia sussultò quando Amabel le accarezzò i ricci neri, era così poco abituata alla gentilezza che una semplice carezza la spaventava.
“Non ho tempo per la colazione, perdonami. Mangia tu per me, sei molto magra. Non aspettarmi per cena, tornerò tardi. Mi raccomando, chiudi la porta a chiave e non aprire a nessuno.”
“Certo, signora. Buona giornata.”
“Buona giornata anche a te.”
Amabel salì in macchina e si diresse verso la clinica attraverso i benestanti quartieri della città. Birmingham all’apparenza sembrava una città idilliaca, grandi parchi verdi, uccellini che cinguettavano, fresche fontane che zampillavano acqua tutto il giorno, risate di bambini che risuonavano nell’aria, eppure le tenebre inghiottivano la periferia come catrame che risucchia la terra. La clinica era ubicata in Mindelsohn Way, una zona piuttosto tranquilla, a pochi isolati dalla centrale di polizia. L’insegna dell’edificio riportava la sigla: Clinica Hamilton, un modo per sottolineare che era Amabel la direttrice, mentre Ada era la sua socia in affari e gestiva l’amministrazione. Sobbalzò sul sedile quando qualcuno picchiettò al finestrino.
“Bentornata, sfaticata.” La salutò Oliver, il camice bianco sulle spalle, gli occhiali sul naso. Amabel scese dall’auto per abbracciare l’amico, non lo aveva visto per tutta l’estate.
“Ciao, Olly. Ti sono mancata?”
“Certo che mi sei mancata! Questa città è noiosa, non ho amici con cui spettegolare.”
“Sono tornata e da oggi potremo spettegolare insieme. Allora, come sono andate le cose di recente? Ho odiato abbandonare la clinica per tre mesi.” Disse Amabel, e nel frattempo attraversava il parcheggio per raggiungere l’edificio.
“E’ andato tutto bene. Abbiamo un valido team di medici e infermieri che hanno svolto un lavoro eccellente. Tu, invece, ti sei divertita al mare? E come stanno le tue sorelline?”
“Stanno bene, sono le solite. Comunque sì, sono stata bene al mare, anche se le vacanze erano forzate.”
Oliver sapeva dei Peaky Blinders, degli affari sporchi degli Shelby e del coinvolgimento di Amabel; era stata Ada a raccontargli tutto.
“Sono contento che Tommy ti abbia allontanato dalla città, almeno ti sei riposata un poco. Non andavi in vacanza dai tempi della guerra.”
“Non mi piace andare in vacanza, il riposa aumenta la mia ansia. E smettila di psicanalizzarmi!”
Oliver rise alzando le mani in segno di resa, era evidente che stesse valutando il profilo psicologico dell’amica.
“Amabel!” esclamò una voce femminile, e l’attimo dopo Ada stava abbracciando Amabel.
“Ciao, Ada! Ti trovo in splendida forma!”
“Sì, ma sei tu quella abbronzata. Come sta Charlie? Non sono ancora andata a trovare Polly.”
Amabel, dopo essere tornata da Exmouth, aveva consegnato Charlie alle cure di Polly poiché era lei la persona più indicata per occuparsene. Doveva ammettere che il bambino le mancava molto, soprattutto quando si ritrovava sola nella sua casa enorme e il silenzio regnava sovrano.
“Lui sta bene. E’ cresciuto tanto, mangia tanto e dorme tanto. Ha anche imparato a gattonare!”
Ada abbozzò un sorriso triste, si era persa la crescita del nipote a causa della sua famiglia vendicativa.
“Siamo tutti grati per il tuo aiuto. Charlie è stato fortunato ad avere avuto te in questi mesi.”
“Io sono stata fortunata ad avere quell’adorabile bambino in giro per casa. E’ così dolce che stento a credere sia uno Shelby!” replicò Amabel ridendo. Anche Ada rise, consapevole che la dolcezza fosse un concetto estraneo ai membri della propria famiglia.
“Dai, stasera io e Oliver ti portiamo al Garrison per festeggiare il tuo ritorno. Che ne dici? Rivedrai quelle brutte facce dei Peaky Blinders.”
Amabel pensò a Tommy per un momento, non lo aveva né visto né sentito da quando era tornata, e sperava di trovarlo al pub quella sera.
“Dico che è una splendida idea. Ora vado nel mio ufficio, qualcuno dovrà pur lavorare in questa clinica!”
Si allontanò accompagnata dal suono delle risate di Oliver e Ada. Incontrò un paio di medici appena impiegati, una coppia di vecchie infermiere, e anche alcuni piccoli pazienti del reparto pediatrico. Quando si infilò il camice si sentì completa. Il suo ufficio era una piccola stanza al primo piano, dalle pareti azzurrine e arredata da semplici mobili bianchi, e molti disegni realizzati dai bambini che aveva curato erano appesi alla sua destra. Sulla scrivania campeggiavano una foto dei suoi genitori e una foto delle sue sorelle con Bertha.
“E’ permesso?” domandò una voce sulla soglia della porta. Amabel scattò in piedi quando riconobbe Emily Marshall, l’infermiera che aveva servito con lei a Verdun.
“Oh, Emily!”
Si abbracciarono con le lacrime agli occhi, erano otto anni che non si vedevano. Si erano scritte molte lettere, perlopiù auguri di buone feste, ma non avevano mai organizzato un appuntamento poiché l’infermiera era partita per l’America.
“Siete bellissima come sempre, dottoressa Hamilton. E avete una clinica tutta vostra!”
“Io? Sei tu quella bellissima! Beh, sì, ho una clinica mia dopo averla sognata per anni.”
Amabel tastò i capelli e il viso di Emily per assicurarsi che fosse lì, che non fosse un sogno, che fossero entrambe davvero vive.
“In città si mormora che la clinica sia stata un regalo di Thomas Shelby per voi.” Disse Emily, al che Amabel indietreggiò come se si fosse scottata col fuoco.
“Il mormorio è dovuto al fatto che Ada Thorne, la sorella del signor Shelby, è mia socia. Questa clinica non è un regalo, è una attività onesta che io e la vedova Thorne conduciamo insieme.”
“Thorne? Questo cognome mi dice qualcosa.”
“Sì. – confermò Amabel – Era il cognome di Freddie, il secondo del sergente Shelby. Entrambi erano parte della squadra degli scavatori di tunnel.”
Emily annuì, nessuno poteva scordare la fatica che gli scavatori facevano per ore e ore in spazi bui e angusti.
“La guerra non è stata facile per nessuno.”
“Già. Parlando di qualcosa di allegro, come mai sei qui?”
“Oliver non ve lo ha detto? Sono stata assunta nel reparto pediatrico. Lavoreremo di nuovo insieme!”
Le due donne si abbracciarono ancora, questa volta qualche lacrima era sfuggita.
“Sono davvero felice di averti di nuovo al mio fianco, Em. Allora, hai qualcosa per me?”
Emily le consegnò un plico di cartelle che fecero arricciare il naso di Amabel per la quantità di lavoro che l’attendeva.
“Quelle sono le cartelle dei pazienti recenti, e per ‘recenti’ si intendono quei pazienti che sono nostri clienti all’incirca da tre mesi. Controllatele con calma e, se avete bisogno di chiarimenti, vi basta chiamarmi.”
“Sei efficiente come al solito. Ti ringrazio.”
“Buon lavoro, dottoressa.” Disse Emily facendole l’occhiolino, al che Amabel ridacchiò salutandola con un cenno del capo. Rimasta da sola, si sedette e iniziò ad esaminare le cartelle.
Un’ora dopo si stava massaggiando gli occhi stanchi, non ne poteva più di leggere di malattie, infezioni e ossa rotte. Era sul punto di prendersi una pausa quando il nome di un paziente le balzò all’attenzione: Warren Emerson. Il documento riportava una serie di problemi: braccia fratturate, gamba rotta, setto nasale deviato e una grave infezione all’occhio sinistro. Il ricovero si datava alla notte dell’inaugurazione della clinica. Le sue condizioni erano la causa di una violenza inaudita e solo poche persone a Birmingham potevano ridurre un uomo in quel modo.
Ada aggrottò le sopracciglia quando vide Amabel attraversare il corridoio con un diavolo per capello.
“Amabel, va tutto bene?”
“Dov’è quel farabutto di tuo fratello?”
Ada si guardò intorno per essere certa che nessuno le ascoltasse.
“Quale dei tre?”
“Thomas. Voglio sapere dov’è Thomas. Mi ha dato il permesso di tornare ma non mi ha ancora contattato. Dove si trova?”
“Non pensavo che Tommy ti mancasse tanto.” Scherzò Ada, però Amabel non stava ridendo affatto.
“Tuo fratello ha fatto pestare a morte Warren Emerson, ovvero il mio ex fidanzato. Io devo parlare con lui perché capire che diamine gli è passato per la mente.”
“Tommy ordina ai suoi di pestare il tuo ex e tu ti chiedi la ragione? E’ la gelosia. Pura e semplice gelosia.”
“Quella pura e semplice gelosia rischiava di perforare il polmone di un uomo e ucciderlo.” Disse Amabel, fredda e risoluta. Ada abbassò lo sguardo con fare colpevole.
“Tommy non è tornato da Liverpool. Nessuno sa dove si trovi, nemmeno Polly. Arthur e Michael sono tornati da soli.”
“Tutto questo è sbagliato, Ada.”
Amabel abbandonò Ada in mezzo al corridoio per rifugiarsi in ufficio, con i sensi di colpa che la divoravano per quello che era successo.
Amabel mangiucchiava le noccioline distrattamente. Non era interessata alla conversazione che Oliver aveva intavolato con Ada, Finn e Isaiah. Quel pomeriggio aveva provato a contattare Warren, lo aveva chiamato a casa, lo aveva cercato all’università, e si era addirittura presentata sotto il suo balcone ma non aveva risposto nessuno. Alla fine Oliver l’aveva trascinata al Garrison contro la sua volontà e ora se ne stava seduta in un angolo a spiluccare nella ciotola di frutta secca. Di Arthur, Michael e Tommy non c’era traccia. Sembravano scomparsi nel nulla, persino Finn era all’oscuro su dove fossero i fratelli e il cugino.
“Dottoressa, sei di pessima compagnia!” la schernì Isaiah dandole una leggera gomitata. Amabel simulò un sorriso, poi tornò a chiudersi in se stessa. Sulle sue spalle gravavano la morte di Jacob e Dominic e il pestaggio di Warren. Era colpa sua e del suo coinvolgimento nei malaffari dei Peaky Blinders. Ingenuamente aveva sperato che Tommy non fosse il tipo d’uomo che picchia un ex fidanzato per marcare il territorio, invece si era proprio sbagliata.
“Terra chiama Amabel! Terra chiama Amabel!”
Oliver stava sventolando la mano davanti alla faccia di Amabel, che sbuffò.
“Sì, sì, sono qui. Che succede?”
“Che succede a te? Lo sai che sono uno studioso della psiche e che posso leggerti come fossi un libro, un bellissimo e intricato libro.” Disse Oliver accarezzandole la mano.
“Sto bene, Olly. E’ solo strano essere tornata in questo pub, con queste persone, dopo tutto quello che è successo soltanto tre mesi fa.”
“E’ strano essere in questo pub senza Tommy.” Replicò l’amico, al che Amabel sospirò.
“Non mi va di parlare di Tommy. Perché non canti? Questo pub ha bisogno di una voce angelica come la tua!”
Oliver era solito cantare e suonare il piano nelle serate che Amabel aveva soggiornato a casa sua a New York. Spesso aveva cantato per farla addormentare dopo un incubo, per consolarla, oppure per farla tornare a sorridere.
“Tu canti?! – si intromise Ada – Cantaci qualcosa, dai! Il Garrison non sente una bella voce da quando Grace è andata via.”
Oliver si alzò in piedi, si disfò nella giacca blu e si accorciò le maniche della camicia ai gomiti.
“Il mio pubblico ha qualche richiesta?”
“Canta la mia preferita.” Disse Amabel, e Oliver si inchinò accettando la richiesta. Amabel vide l’amico accordarsi con il responsabile del pub e, dopo qualche pressione, una coppia di ragazze lasciò all’uomo lo sgabello del pianoforte. Oliver prese posto, si sgranchì le dita e scoperchiò lo strumento. Tutti i clienti smisero di bere e di chiacchierare quando le prime note di una vecchia ballata scozzese riecheggiarono nel pub. Nel silenzio la voce di Oliver si levava come quella di un usignolo su un alto ramo.
“Speed bonnie boat, like a bird on the wing. Onward! The sailors cry! Carry the lad that’s born to be king over the sea to skye! Loud the winds howl, loud the waves roar, thunder clouds rend the air. Baffled our foe’s stand on the shore, follow they will not dare!”
Un uomo emerse dalla folla, i ricci capelli rossi erano un chiaro segno delle sue origini scozzesi. Si avvicinò ad Oliver per stringergli la mano, dopodiché incominciarono a cantare insieme.
“Though the waves leap, soft shall ye sleep and ocean’s a royal bed. Rocked in the deep, Flora will keep watch by your weary head. Many’s the lad fought on that day well the claymore could wield. When the night came, silently lay dead on Culloden’s field.”
Oliver d’un tratto afferrò un boccale di birra e lo sollevò come fosse una bandiera da issare alta nel cielo.
“Burned are our homes, exile and death, scatter the loyal men,yet, e’er the sword cool in the sheath, Charlie will come again.”
Un boato di applausi e fischi esplose nel Garrison, tutti avevano trovato quello spettacolo interessante. Oliver riceveva complimenti di qua e di là, sorrideva, stringeva mani, beveva alcol gratis. Amabel stava battendo i piedi e le mani, Ada strillava e Isaiah e Finn applaudivano come forsennati.
“Che canzone è?” domandò Finn.
“E’ una ballata popolare scozzese scritta nel 1884 da Sir Harold Boulton, ma la melodia risale agli ultimi anni del ‘700. Narra della fuga di Charles Edward Stuart dopo la sconfitta nella battaglia di Culloden. Fu aiutato dalla bella Flora a rifugiarsi sull’isola di Skye. Oliver l’ha imparata da un soldato scozzese che è rientrato in patria con me e il resto dell’unità medica.”
Amabel era appena rincasata, era stanca e assonnata. Appese il soprabito e la borsa all’ingresso, depositò la valigetta in cucina e si recò in camera propria. La camera di Jalia era aperta, la ragazza stava dormendo vestita e con la cuffia bianca ancora tra i capelli. Amabel la coprì in modo che non si raffreddasse, dopodiché chiuse la porta e spense la luce del corridoio. Stava per togliersi le scarpe quando suonò il campanello ripetute volte.
“Dottoressa! Dottoressa!” strava gridando qualcuno dalla strada. Sbirciando dalla finestra, Amabel intravide Curly che reggeva un uomo afflosciato per terra.
“Signora, ci sono due uomini alla porta.” Disse Jalia facendo irruzione nella stanza di Amabel, che si stava già precipitando al piano di sotto.
“Li conosco. Sono amici.”
Jalia aprì il pesante portone e l’uomo che Curly teneva per il braccio cadde sul tappeto. Era Tommy. Amabel si chinò per esaminarlo.
“Che è successo?”
“Non lo so. Un’ora fa Tommy è venuto a trovare i cavalli … ed era strano … poi è caduto nella paglia … io … io l’ho portato da voi.” Spiegò Curly, sebbene la sua spiegazione fosse poco dettagliata. Tommy presentava una respirazione lenta e superficiale, bava alla bocca, e il battito cardiaco era rallentato. Il suo viso era cianotico, così come le unghie, e le pupille erano a ‘’spillo’’.
“E’ in overdose.” Disse Amabel.
“Ah, ecco … forse sta male per colpa di questa.”
Curly mostrò alla dottoressa una bustina di carta contente piccole pillole biancastre.
“Idiota. – mormorò Amabel – Tommy ha ingerito eroina.”
“Come lo aiutiamo?” domandò Jalia sistemandosi la cuffietta tra i capelli.
“Curly, metti Tommy sul divano in posizione laterale. Jalia, tu prepara una bacinella di acqua e sale da cucina. Io penso ai medicinali.”
Amabel scavò nello studio del padre in cerca di qualcosa che potesse aiutare Tommy a superare la crisi respiratoria e far svanire il colore cianotico. Recuperò un vecchio diario in cui il padre annotava le cure a cui aveva sottoposto i propri pazienti, uno di quelli che lei aveva studiato a fondo. La cura prevista per una crisi respiratoria consisteva nell’inalazione di miscele gassose ad elevato contenuto di ossigeno, ma in casa non disponevano di quell’attrezzatura. Altre terapie consigliate riguardavano antibiotici per la polmonite e broncodilatatori, oppure era consigliata la tracheotomia.
“Dottoressa! Tommy sta male!”
Amabel corse in soggiorno nel momento in cui Tommy stava vomitando, l’insufficienza respiratoria peggiorava in quanto ostacolata dal rigurgito.
“Eccomi, signora.” Disse Jalia, e mise a terra la bacinella.
“Adesso procederemo in questo modo: facciamo bere a Tommy l’acqua della bacinella in modo da espellere le pillole, poi pensiamo alla respirazione. Curly, mantienilo in questa posizione altrimenti rischia di soffocare. Jalia, tu gli dovrai tenere la bocca aperta mentre io gli faccio bere l’acqua.”
Curly tenne Tommy in posizione mentre Jalia gli spalancò la bocca, e Amabel versò la soluzione salina. Tommy fu scosso da tremori e convulsioni, la respirazione era più critica di prima e le pupille stavano diventando quasi del tutto bianche. Un minuto dopo vomitò tutto quello che aveva ingoiato, dall’alcol alle pillole di eroina, insieme a quel poco che aveva mangiato a colazione. Jalia era impressionata dall’azione miracolosa dell’acqua.
“Che cos’è quella roba?”
Amabel si spostò prima che il vomito le imbrattasse le scarpe, costavano troppo per essere rovinate da un gangster in overdose.
“E’ una lavanda gastrica. Nei casi di intossicazione si fa ricorso al cloruro di sodio che in pratica è il sale sodico, ossia il banale sale da cucina. In questo modo lo aiutiamo ad espellere la droga che ha ingerito.”
Quando la lavanda esaurì l’effetto, Tommy sbarrò gli occhi rossi come se lo avessero sviscerato. Il suo stomaco era come una nave in mezzo ad una tempesta. Jalia gli pulì il mento col grembiule, attenta a non ostruire bocca e naso.
“E come curerete il resto?”
Tommy respirava a fatica, i suoi polmoni stavano cedendo e la pelle restava bluastra come prima. Amabel, contando i battiti, si rese conto che stavano rallentando sempre di più.
“Adesso ci dobbiamo occupare della crisi respiratoria e della cianosi, il che sarà spiacevole. Procuratemi un coltello, una penna, disinfettante e la mia valigetta.”
Mentre Curly recuperava la valigetta, Jalia raccattò una penna e un coltello dalla lama affilata. Intanto Amabel si premurava di tenere Tommy sul fianco perché non si strozzasse.
“Ma che combini, Thomas?”
Tommy, in risposta, le afferrò la mano con forza e la guardò. Amabel si lasciò addolcire e gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte imperlata di sudore.
“Tutto pronto, signora.” Annunciò Jalia.
“Bene. – disse Amabel – Ora devo eseguire una tracheotomia casalinga, devo letteralmente bucare la gola di Tommy e inserire la penna per farlo respirare, dopodiché gli somministrerò un broncodilatatore per la polmonite.”
Curly aggrottò le sopracciglia.
“Si tratta di polmonite?”
“No, ma per curare la cianosi gli appunti di mio padre suggeriscono di usare i medicinali per i bronchi. E’ un tentativo, purtroppo non ho mai fatto una cosa del genere prima.”
Amabel era una pediatra e i suoi pazienti di certo non usavano stupefacenti, e neanche in guerra si era confrontata con una situazione del genere. La sua strategia medica non si basava sull’overdose ma sulla cura dei singoli sintomi nella speranza che ogni pezzo alla fine risolvesse il grande puzzle.
“Vi serve una mano?” domandò Jalia, anche se la sua espressione spaventata era un chiaro segno che avrebbe fatto a meno.
“Tenetelo fermo, questo gli farà davvero male.”
Amabel sezionò la penna a sfera, mise da parte la cavità che conteneva l’inchiostro e la sfera metallica. Richiuse le due metà della penna creando una specie di bastoncino vuoto. Bagnò la trachea di Tommy con il disinfettante, sterilizzò anche il coltello e le proprie mani. Tommy stava per terminare l’ossigeno, i suoi polmoni non riuscivano a sopportare la crisi. Sebbene fosse vigile, Amabel si fece coraggio e praticò una incisione abbastanza profonda al livello della trachea. Il sangue le schizzò sulla camicetta ma lei lo ignorò, non c’era tempo da perdere. Inserì la penna nell’incisione e Tommy emise un rantolo, poi riprese a respirare regolarmente. Mosse le labbra per parlare ma non ne uscì parola.
“Non parlare. Pensa solo a respirare.” disse Amabel. Gli somministrò endovena un antibiotico per la bronchite per impedire alla cianosi di diffondersi. Curly si piegò sull’amico e gli controllò il respiro.
“Sta bene?”
“Non ancora. Ha bisogno di ossigeno, la penna è solo una soluzione temporanea. Dobbiamo chiamare Arthur. Curly, te ne occupi tu?”
“Certo, dottoressa.”
Un’ora dopo casa Hamilton fu invasa dagli Shelby. Polly e Ada stavano con Tommy, Finn spazzolava una confezione di dolcetti, Arthur fumava il sigaro e Michael aiutava Amabel ad azionare la bombola d’ossigeno che un paio di Peaky Blinders avevano rubato dal deposito dell’ospedale. Tommy stava meglio, il suo viso stava ritornando al colorito consueto, le pupille erano di nuovo normali e respirava bene, ma la sua mente era ancora annebbiata dalla droga.
“Grazie, Amabel. Gli hai salvato la vita.” Disse Polly tamponando la fronte di Tommy con acqua fredda. Amabel si sentiva a disagio in mezzo a loro, come un agnello in un branco di lupi.
“E’ il mio dovere. Sono un medico. Comunque, dovrebbe farsi visitare ed eventualmente ricoverare.”
“No. – obiettò Arthur – Col cazzo che Tommy va in qualche fottuto ospedale. Tu sei il medico dei Peaky Blinders, è una tua responsabilità.”
“Arthur ha ragione. – continuò Michael – Nessuno in città deve sapere che Tommy si fa di eroina e che ha avuto una crisi, altrimenti lo vedrebbero come un segno di debolezza.”
Amabel non aveva voglia di discutere, soprattutto non con due teste calde come Arthur e Michael.
“Va bene. Stanotte può restare a dormire qui, domani mattina vedremo come sta. Vi tengo aggiornati.”
L’indomani Amabel si svegliò alle prime luci dell’alba dopo una notte insonne. Scendeva in soggiorno ogni ora per accertarsi che Tommy respirasse ancora, tornava in camera e restava a fissare il soffitto. Si stava preparando il caffè da sola, Jalia stava ancora dormendo per via dello spavento della sera prima. La camicetta di Amabel era appesa alla sedia, ancora sporca sul davanti del sangue di Tommy, una sorta di promemoria delle ore precedenti. Udì un boato e accorse in soggiorno, trovando un Tommy che tentava di mettersi seduto sul divano.
“Non ti muovere! Tu devi restare sdraiato.”
“Ordini del medico, suppongo.” Replicò Tommy massaggiandosi le tempie.
“Ordini di una che non vuole ancora il tuo vomito sul tappeto. Sai quanto mi costerà smacchiarlo?!”
Amabel si sedette sul tavolino di legno di fronte al divano a sorseggiare il suo caffè. Il colorito di Tommy era piuttosto pallido ma tutto sommato il sangue affluiva alle guance, il respiro era migliorato e i suoi occhi erano tornati azzurri.
“Mi dispiace per ieri sera. E’ stata un’idea di Curly venire qui.”
“Sta zitto. Curly ha fatto bene, saresti morto entro mezz’ora. Come ti è venuto in mente di assumere eroina? Quelle compresse sono state sintetizzate da poco, potevano essere fatali in pochi secondi. Il processo di sintesi delle droghe va eseguito correttamente oppure il rischio di morte è certo.”
Amabel distolse lo sguardo, non riusciva a guardarlo senza pensare alla cartella di Warren. Tommy, invece, non staccava gli occhi da lei. Era abbronzata, con i capelli lunghi fino a metà schiena, e la sua solita espressione preoccupata.
“Gli incubi mi davano il tormento. Il ricordo di Grace, il pensiero di Charlie e di quello che è successo a Liverpool mi stavano uccidendo il cervello. Un tipo è passato per il canale mentre davo da mangiare ai cavalli e mi ha offerto le pillole. Ho pensato che fossero un buon metodo per mettere a tacere la mia fottuta testa.”
“Lo capisco che sei sconvolto da quello che è capitato a Grace, ma questo non giustifica il tuo comportamento. Io mi sono presa cura di tuo figlio per tre mesi! Charlie è stato con me e la mia famiglia quando un padre ce l’ha. Il problema è che tu non puoi guardare tuo figlio senza pensare a Grace, e questo ti manda in bestia. Lo sai che la droga non è un metodo permanente, che prima o poi torni alla realtà e stai peggio di prima.”
Tommy si sentì come se lei lo avesse colpito dritto in faccia con la canna di un fucile. Amabel aveva centrato l’obiettivo con una mira letale.
“Mi rimetterò in sesto, lo faccio sempre. E poi ci sarai tu al mio fianco.”
“No. Non ci sarò io al tuo fianco, Tommy.”
Tommy con orrore si accorse che Amabel per la prima volta lo stava chiamando ‘Tommy’ e non ‘Thomas’ come suo solito. Qualcosa di tremendo aveva spezzato il loro legame.
“Perché cazzo sono ‘Tommy’ per te? Che ti prende, Bel?”
Amabel abbandonò la tazza sul tavolino e si alzò, incapace di stare vicino a lui.
“Warren è stato pestato la sera dell’inaugurazione.”
“E la faccia spaccata di quel cazzone che c’entra con me?”
“Tu hai dato l’ordine di aggredirlo. Ti ricordi quella sera? Mi hai detto di aspettarti in camera tua e io, ingenua, l’ho fatto. Mentre io ti aspettavo, tu comandavi ai tuoi di picchiare Warren perché era venuto a Birmingham per me. La mia intuizione è giusta?”
Tommy inarcò il sopracciglio come faceva ogniqualvolta qualcosa lo irritasse. Amabel lo fissava come se fosse un accusato al banco dell’imputato, severa nella sua postura dritta.
“Hai ragione.”
Amabel sospirò, quasi credeva che lui avrebbe ritrattato, invece stava ammettendo le sue azioni con nonchalance.
“Perché lo hai fatto?”
“Perché quel dottorino del cazzo mi ha parlato nel modo sbagliato, e nessuno parla a Tommy Shelby in quel modo senza pagarne le conseguenze.”
“Chiamo Arthur e gli dico di venirti a prendere. Noi non abbiamo più niente da dirci.”
Tommy si mise in piedi, nonostante i lancinanti dolori che gli facevano digrignare i denti, e tese la mano verso Amabel, ma lei non si mosse.
“Bel, per favore, non lasciarmi proprio adesso.”
“Non cercarmi più, Tommy.”
Tommy si stava scolando l’ennesimo bicchiere di whiskey quando Polly lo chiamò in cucina per una riunione. All’appello mancava solo Ada che era andata in clinica per le solite mansioni.
“Perché cazzo state disturbando la mia convalescenza?”
Polly lo fulminò con un’occhiataccia e gli fece cenno di sedersi.
“Perché quella merda che hai ingerito ieri sera sta uccidendo i ragazzi di Small Heath.”
“Fino ad oggi si calcolano dieci morti.” Aggiunse Michael, che aveva studiato gli articoli di giornale per avere un quadro generale. Tommy si accese una sigaretta ma Polly gliela strappò dalla bocca.
“Amabel ha detto che non devi fumare, i tuoi polmoni sono ancora a corto di ossigeno. Vedi di non crepare come quei ragazzi, imbecille.”
“Sono qui, no? Questo vuol dire che quella merda non uccide necessariamente tutti.” Disse Tommy, e intanto si accendeva un’altra sigaretta.
“Tu sei vivo perché Amabel ti ha salvato il culo. Quella donna ha fatto un miracolo.” Disse Arthur lisciandosi i baffi. Tommy storse il naso alla menzione di Amabel, non accettava la loro separazione.
“La dottoressa non è più dalla nostra parte. Se la droga uccide, vuol dire che i morti aumenteranno e il cimitero non avrà più posto per i cadaveri.”
“Che vuol dire che non è più dalla nostra parte?” domandò Michael. Polly guardò i nipoti per poi imprecare.
“Voi teste di cazzo avete combinato qualcosa. Che cosa?”
“Ho ordinato che due dei nostri dessero una lezione al suo ex fidanzato, un certo Warren Emerson.”
“Stronzate! – disse Arthur – Non abbiamo sfiorato quello stronzetto nemmeno con un dito. Quando quella sera abbiamo raggiunto la pensione dove alloggia, non c’era. La proprietaria ha detto che se n’era andato poche ore prima.”
Tommy gli lanciò il pacco di sigarette e Arthur gli scagliò contro un cuscino.
“E me lo dici solo adesso? Cazzo, Arthur! Meno male che io ho un fottuto cervello che pensa anche per te!”
“Stavo per dirtelo quando quella svizzera del cazzo ci ha fatto quel regalo di merda!”
Michael si prese qualche istante per riflettere, c’era qualcosa che stonava nel racconto dei cugini.
“Ma se non siamo stati noi, allora chi è stato?”
Salve a tutti!
Direi che le cose per Tommy non si sono messe bene. Chissà che cosa è successo davvero a Warren.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima.
Un bacio.
Ps. Le cure che Amabel presta a Tommy sono ricerche che io ho fatto su internet. Negli anni 20’ del ‘900 non c’erano medicinali contro l’overdose, perciò ho dovuto improvvisare un po’. Spero che gli studenti/esperti di medicina possano perdonarmi 🙏
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Red right hand 2 || Tommy Shelby
Fiksi PenggemarErnest Hemingway ha scritto «l'uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto». Thomas Shelby e Amabel Hamilton sono stati distrutti dalla guerra, da Birmingham, dalle loro stesse menti. L'unico barlume di speranza...