3. ROMANA

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Ovvero il giorno prima del giorno X...

«Mi dispiace molto di usufruire della tua ospitalità anche oggi, Carmen» dissi come sempre a mia cugina. Se c'era qualcosa che proprio non sopportavo era chiedere aiuto agli altri, a meno che non si trattasse del mio adorato Booth.

Questa volta però non avevo avuto scelta.

«No problemo per me», rispose lei di rimando, come ogni volta, mostrandomi un ampio sorriso.

«Tanto anche se non mi liberano la casa entro stasera questo fine settimana parto per le vacanze».

«Vacanzo?» mi domandò aggrottando le sopracciglia scure.

Sbuffai. Mia cugina era tanto buona e cara, ma aveva sempre la testa tra le nuvole. «Sì, te lo avevo detto che sarei rimasta solo qualche giorno, il tempo che levassero quella schifosa infestazione di cimici da casa mia. Pensa che Booth le voleva pure mangiare!».

«Meow meow». Il gatto si strusciò sulle mie gambe sotto al tavolo. Inclinai prontamente il viso per osservarlo. La sua risposta non mi era piaciuta per niente.

«Booth» lo rimproverai: «Non credo che le cimici facciano bene al tuo stomaco, anche se le trovi deliziose».

Mia cugina versò il caffè in due enormi tazze di porcellana un po' sbeccate, decorate con graziosi fiorellini azzurri. Notai che le mani le tremavano leggermente, e che qualche goccia si era spanta sulla tovaglia ricamata.

«Sei sicuro che vu' propria andara? E la storto alla caviglio?».

Mi ricordai di due giorni addietro, quando ero caduta dalle scale mentre uscivo per andare a fare la spesa: era il minimo che potessi fare per ricambiare la gentilezza di mia cugina.
Carmen abitava in un appartamento abusivo costruito sul tetto di un condominio di cinque piani senza ascensore. Avevo messo male il piede ed ero scivolata: lo sapevo che dovevo buttare quei mocassini maledetti!
Sta di fatto che il mio sedere si era ammaccato per tutta una rampa di scale e mi ero fermata soltanto al pianerottolo. Poi ero svenuta, o almeno così mi aveva detto Carmen, e mi ero svegliata all'ospedale.
Dicevano che avevo battuto la testa, ma io mi sentivo bene, benissimo.
Forse era l'euforia di poter rivedere di nuovo la pensione Stella ad avermi fatto guarire in un battibaleno: mi bastava pensare a Misano e il mio cuore faceva i salti di gioia e la vista mi si appannava di lacrime.

«Non ti devi preoccupare, sto benissimo». Le sorrisi e mi sporsi a grattare Booth tra le orecchie: che bel gattone micettoso che era.

«Guardo c'è lo telefilm che ta piacia tanto!» cambiò argomento mia cugina, indicando il televisore su cui stava andando in onda un altro episodio di C.S.I. Scena del Crimine.

Adoravo quella serie, ne andavo pazza. Mi piaceva così tanto perché io sono un'illustre antropologa forense.

«Mmmh... questa puntata mi sembra di averla già vista», dissi tra me e me. Poi piano piano presi a rilassarmi e entrai nella storia. Quella sera stessa avrei fatto i bagagli, Misano mi aspettava.
Sarei partita il giorno seguente.

In effetti quei due pomeriggi con Carmen erano stati molto ripetitivi,  ma lei era tanto dolce e tanto cara a prendersi cura di me. Continuava a dirmi che non ero un disturbo, che lo faceva volentieri, ma io non la vedevo proprio così. C'erano doppi caffè da fare, doppi piatti di pasta da preparare, doppie colazioni, doppie passate di aspirapolvere per rimuovere i peli che perdeva Booth, doppie docce!

Carmen era la parente che mi abitava più vicina, e con quel brutto imprevisto delle cimici non sapevo proprio dove andare.
Se solo avessero aspettato, prima di invadermi la casa! Se solo mi avessero avvertito, maledette bestie! Solo due giorni: avrebbero pure potuto aspettare due giorni!, ché poi sarei partita per la mia vacanza e non avrei dovuto arrecare disturbo a mia cugina.
Ma si sa, gli imprevisti si chiamano così proprio perché non si sono mai visti prima. 

Sospirai. Mio padre, dopotutto, me lo aveva sempre detto di non comprarmi quella casa sperduta in mezzo ai campi di pannocchie. Mi aveva ripetuto fino allo sfinimento che sarei stata meglio in pieno centro.
Ma io ho sempre preferito la tranquillità della campagna al frenetico tran tran della città. Mente sana in corpo sano, ché già il mio lavoro mi stressava abbastanza.
Non ho mai sopportato l'idea di avere dei vicini, di avere un campanello che potesse suonare o, peggio,  un telefono fisso sul quale chiunque mi potesse contattare ogni cinque minuti e il telefono fisso incomincia a squillare, Drìn, drìn, drìn!, e tu fai le corse per rispondere, ché magari sei sotto la doccia, e quando arrivi al telefono con lo shampoo che ti acceca gli occhi e le pantofole di spugna fradice ché non hai fatto neanche in tempo di asciugarti, dici pronto? e fai la gentile e chiedi come va? e dall'altra parte non non ti salutano neanche e ti tengono mezz'ora in piedi, davanti al telefono fisso, con gli occhi che ti bruciano e i piedi gelati e poi scopri che ti hanno telefonato solo perché ti vogliono vendere un contratto per un nuovo telefono fisso!
Drìn, drìn, drìn!
No, ne avevo già abbastanza del mio smartphone, con il quale avevo un pessimo rapporto. La cosa bella dello smartphone, però, è che lo puoi tirare addosso alle auto in corsa, o gettarlo nel wc, o giocare a fare i rimbalzi giù allo stagno.
Col telefono fisso non le puoi mica fare queste cose...

Ora che ci penso non ricordo del perché abbia tirato il mio smartphone addosso a quell'auto in corsa, non ricordo esattamente bene il per cosa e il per come. Forse c'entravano degli appuntamenti, delle sistemazioni di orari, o una signora rompipalle che voleva a tutti i costi che le installassi un pezzo d'oro incastrato in bocca?
Immagini nella mente, confuse come lo squillo del telefono fisso. Drìn, drìn, drìn!, chissà...

Se non avessi dovuto guadagnarmi da vivere sicuramente mi sarei trasferita in un posto dimenticato insieme al mio gatto. Proprio come la mia prozia Gianfilippa, che da quando era deceduto il suo amante che faceva le comparse nei cinepanettoni, si era messa a fare l'eremita in Tibet. Ora quella saggia donna si dedicava all'arte degli origami in qualche posto dimenticato da Dio. Ricordavo ancora la cioccolata calda che faceva bere a tutti i suoi nipoti anche se fuori c'erano trenta gradi all'ombra. Che donna, la prozia Gianfilippa.

Sì, decisamente preferisco le persone che stanno zitte, in silenzio, possibilmente morte. Sì, morte, e comodamente sdraiate sul  letto di metallo delle autopsie, con la bocca aperta e gli occhi chiusi mentre le ispeziono per capire se sono state uccise per avvelenamento o strangolamento o con arma da fuoco o con una telefonata da telefono fisso o... O beh è una lunga lista! Ciò che importa è che quello è il mio lavoro, e io lo amo.
Amo il mio lavoro, lo amo davvero.
Ecco perché sono un'antropologa forense. 

LA MANO MISTERIOSADove le storie prendono vita. Scoprilo ora