13. ROMANA

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Quel Vvvvvvv metallico era così assordante che, mentre correvo nel tunnel alla ricerca di Mario, dovetti premermi le mani sulle orecchie.
La torcia mi cadde al suolo, e ci scivolai sopra finendo a terra. Feci appena in tempo a ripararmi con le braccia per evitare di sbattere la faccia, e conseguentemente anche il naso e la bocca, sul pavimento lercio di terra battuta.

Accidenti. Quel pavimento aveva proprio bisogno di una lavata.
Sentii l'unto appiccicoso sotto la pelle delle mani e mi venne il voltastomaco. Chissà quali misteriose entità erano incrostate su quel pavimento?
Carcasse di topo, sterco di mucca, moccio di bambino. Cetriolini sottolio in avanzato stato di decomposizione.

«Che mi succede?», mi ritrovai a dire, «Si tratta solamente di un substrato di una decina di centimetri composto di terra battuta pregno di urina e un mix di agenti patogeni variegati, muffe, germi, batteri e probabilmente virus intestinali! Una sciocchezza: ci vuole ben altro per fermare la grande Ispettrice Romana Brennàn!»

Sentii strisciare qualcosa di viscido tra le dita della mano destra e respinsi un conato di vomito.
Dovevo concentrarmi, dovevo immaginare un luogo pulito e rilassante.
Mi venne in mente il profumo del sapone. Sapone di Marsiglia, quello con cui mi lavavo le mani almeno venti volte al giorno, prima di mettere i guanti di lattice azzurri... E l'odore del disinfettante. Uno studio bianco, asettico. Una poltrona reclinabile. Un trapano?

Scossi dalla mente quei malsani pensieri: Mario doveva essere vicino. Mi rialzai e iniziai a chiamarlo.

«Mario, dove sei? Mario!»

Nessuno rispose.

Il Vvvvvvv metallico si attenuò, passando dall'aspirapolvere al suono di un rasoio elettrico: proveniva dalla cella frigorifera da cui eravamo entrati. La porta segreta era vicina!

Mi sfuggì un sospiro di sollievo, mentre a tentoni cercavo di recuperare la torcia che mi aveva fatto inciampare.

Click. Click. Click.

Continuai a premere il pulsantino per accenderla, ma non successe nulla. Purtroppo si era rotta.
Dannazione: in duecentoquarantasei puntate che componevano le dodici stagioni della serie TV che mi vedeva protagonista non era mai successo!
Però quella volta che stavo ricostruendo il premolare di sinistra al signor Marangalasaranga era andata via la corrente e la mia lampada fotopolimerizzante si era spenta... Lampada fotopolimerizzante? Cosa mi stava succedendo?
Scossi dalla mente quei malsani pensieri e mi concentrai sulla parete che ora potevo sentire davanti a me.

Un urlo improvviso mi fece aumentare l'adrenalina: doveva essere Mario. Alfonso lo aveva preso? Lo stava triturando in mille pezzettini?

Le mie mani incominciarono a tastare a casaccio il muro di freddo metallo che mi divideva da quelle grida: un chiavistello! Aprii la serratura con il cuore in gola, e la porta segreta si aprì come lo sportello di una lavatrice industriale. 
La luce al neon della cella frigorifera mi accecò. Sbattei le palpebre più volte per abituarmici.

Tum!

«Prendi questo!»

Un colpo.

«E anche questo, Flavio pezzente!».

Tum! Tum!

Un altro colpo.
«Eh!, ora che ti ho spinto contro il muro non ridi più!».

Attraversai l'oblò con gli occhi puntati sulla scena che mi si stava parando innanzi: alla fine della scaffalatura metallica, contro il muro della dispensa, giaceva il robot cuoco Alfonso, seduto a terra. Mario, al suo fianco, lo stava colpendo selvaggiamente alla testa metallica con due carote surgelate. Sembrava quasi un suonatore di tamburi.

LA MANO MISTERIOSADove le storie prendono vita. Scoprilo ora