L'inganno del cervo

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La zuppa annacquata dell'ultima taverna ancora in piedi al villaggio di Darsena era rinomata per il suo pessimo sapore in tutta la contea. Quattro patate lesse e un cucchiaio di fagioli galleggianti in una poltiglia grigia e salata. Eppure moltissimi avventori continuavano ad ordinarla, forse sperando di entrare nelle grazie di Rosmerta, la bellissima donna che gestiva la taverna.

Si rancontava che fosse figlia d'un pirata e di una principessa che era stata rapita. Ma a Fenrir non interessava, lui era lì per osservare.

«Vuoi una ciotola di zuppa?» gli domandò cortese la padrona di casa, passando davanti al suo tavolo, ancora vuoto.

Fenrir scosse la testa: «Magari più tardi, adesso non ho fame».

Rosmerta fece spallucce e se ne andò, stringendo il suo vassoio, lasciando dietro di sé una fragranza speziata.

In realtà di fame ne aveva tanta, ma non sarebbe bastato a riempirlo una misera zuppa. Lui bramava altro.

Con il mento appoggiato alle mani e i gomiti al tavolo, Fenrir aveva appena adocchiato la sua prossima vittima: un uomo, un cacciatore. A Darsena lo erano quasi tutti.

Aveva una lunga barba legata in un codino e si stava rimpinzando di zuppa. Al contrario degli altri, era seduto da solo, proprio come lui.

Attese in silenzio, senza indugiare troppo sulla sua nuova preda, senza farsi notare. Due uomini gli chiesero se voleva unirsi a loro per una partita a dadi, ma rifiutò. Il suo uomo si era appena alzato, aveva lasciato due monete d'oro sul tavolo a Rosmerta e si era diretto all'esterno, nel gelo dell'inverno.

Fenrir era un divoratore, adorava cambiare forma, e da quando aveva capito che poteva trasformarsi anche in un uomo, procacciarsi le prede era diventato davvero un gioco da ragazzi. Sceglieva quella che più gli faceva ribollire lo stomaco, la pedinava e al momento giusto mutava ancora, a volte in un lupo, a volte in un cinghiale. Il suo animale preferito era un cervo. 

Anche quella notte decise di essere un cervo.

L'uomo non si domandò nemmeno cosa ci facesse un cervo in piena notte vicino al villaggio. Strinse l'arco a sé e lo seguì nella foresta; erano tempi duri.

Fenrir lo allontanò dall'unica minaccia che poteva ferirlo: il fuoco.

Quando giunsero nel folto della foresta ammantata di neve, ghiaccio e nebbia, Fenrir cambiò forma ancora. Avvolse il povero stolto in una nube di fumo e lo divorò, fino a ridurre in polvere il suo corpo massiccio.

Non ebbe il tempo di urlare, né di pregare alcun dio che venisse a soccorrerlo.

Soddisfatto, il mostro sogghignò nel buio. Un sorriso di paura, un sorriso di morte, che lasciava dietro di sé una scia di mistero sulla scomparsa delle sue vittime.

Vagò per il bosco con la pancia piena, assumendo di nuovo le sembianze dell'adorato cervo.

Quello era il suo ventesimo cacciatore. Forse avrebbe lasciato Darsena per occuparsi di un posto più grande e variegato... Forse cominciava a stancarsi della loro carne stopposa, che alla fine sembrava assorbire il sapore di quella zuppa tremenda.

 Forse cominciava a stancarsi della loro carne stopposa, che alla fine sembrava assorbire il sapore di quella zuppa tremenda

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