ᴄᴀᴘɪᴛᴏʟᴏ ᴛᴇʀᴢᴏ

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La osservava spesso, quando tutti gli altri occhi indiscreti attorno a loro sembravano non badare a ciò che accadeva. Si chiudeva nel suo angolino, e lasciava i suoi occhi errare su quella figurina esile ed affascinante che la figlia di Demetra era. Studiava i suoi movimenti lenti, aggraziati, femminili, così innocenti da sembrare puri persino quando tentavano d'essere allusivi; si nutriva del rapidi scostarsi dei suoi riccioli dalle sue belle spalle abbronzate, delle sue risate forzate, della fredda piega distaccata che le sue labbra carnose prendevano per la maggior parte della giornata, in un sorriso strabordante di affettazione, distante e perso in quel mondo che sembrava non appartenerle. Aveva visto quell'espressione molte volte nella sua vita, solo su volti differenti. Le pareva quasi incredibile poterla notare su un viso giovane, pieno di speranze ed occasioni, pronto a prendere tutto ciò che desiderava senza quasi nemmeno dover chiedere come quello che la giovane possedeva, eppure, eccola lì. Una linea triste e sola sulle sue rosee labbra, ed uno sconnesso cerchio delle sue sopracciglia. Quell'espressione le concedeva una strana melancolia che la rendeva quasi affascinante nella penombra delle fronde che circondavano la serra, e che, inevitabilmente, attirava lo sguardo su di lei.
Lasciò scorrere il pettine d'argento tra le sue lunghe ciocche acquose, il sussurrante mormorio della sua chioma le echeggiava nelle orecchie mentre, con i suoi occhi neri, seguiva come un rapace pronto a planare sulla sua preda il corpicino della fanciulla che correva e si dimenava tra le braccia delle altre ninfe, con quella tristezza ammosciata nel petto che la indeboliva, anche se tentava di nasconderlo. L'aveva vista, da bambina, una cosettina alta sì e no quando un'anfora ricolma di vino, tutta saltellante e urlante nella sua tunichetta biancastra, intenta a fare ruote e piroette e a riempire il silenzio della serra con la melodia delle sue risate. Ora non c'era differenza, ma sentiva una strana tensione nella ragazza, la percepiva da lontano, senza doversi nemmeno avvicinare. Ed anche le sue sorelle parevano essere al corrente di quel distante ronzio che lei emetteva senza rendersene conto.

«Deve essere quasi ora,» aveva detto qualche giorno prima Dafne, la ninfa più considerata da Demetra tra tutte loro, «La sua anima è stanca.»

Come se lei non avesse mai notato Thanatos, appollaiato come un uccellaccio del malaugurio sulle alte colonne attorno al regno di Demetra, con le sue grandi ali raccolte sulla schiena e il suo occhio vigile puntato sulla piccola dea, in tutti quegli anni.
Sapevano entrambi che cosa stesse aspettando, nonostante lui non gliene avesse mai parlato.
Sospirò, posando il pettine su una roccia e, nuovamente, studiò la ragazza ora intenta a chiacchierare intensamente con un'altra ninfa, che sembrava ascoltarla con il più educato degli interessi. La sua voce leggera la raggiungeva appena, ammutolita com'era dallo scrosciare della cascata che le separava, ma riuscì comunque a distinguere alcune parole. Mondo, scoprire, Oltretomba. Sbuffò in una risata. E come poteva non star parlando di quello? Sembrava non avere altro in testa. Non importava quanto Demetra la rimproverasse, quanti schiaffi le tirasse, quante umiliazioni le infliggesse davanti a tutte loro, lei era caparbia, e continuava a cercare risposte alle sue domande, ostinata quanto un ariete ad abbattere le rigide porte del riverenziale silenzio che avvolgeva il regno di Ade. Da un lato, la capiva. Quando la giovinezza l'aveva baciata come i raggi del sole, anche lei era stata così, incuriosita al punto da esplodere dalla voglia di scoprire, e persino da trovare tutto il coraggio e l'insolenza di correre ed infilarsi tra le mura del palazzo del dio dei morti, trovandovi infine un rifugio e una casa. Aveva bevuto il vino del mondo oltre il velo della vita, aveva riso insieme alle anime rinchiuse laggiù, aveva visto i segreti più reconditi delle isole dell'Oltretomba, ed era riuscita ad intravedere l'uomo dietro la maschera del re. Ma era passato tanto, troppo tempo.

E quel vino s'era fatto acido.

Vide la piccina sedersi tristemente sulla sponda del lago, i suoi occhi violacei concentrati sul loro riflesso nell'acqua, lunghi sospiri tranciarono le sue labbra contratte, e una vasta disperazione dipinse quel visetto perfetto che solo due dèi come Zeus e Demetra avrebbero potuto creare. Il suo cuore venne stretto da una morsa di pena. Doveva almeno parlarle, seppur fosse ben conscia di quanto le fosse proibito anche solo avvicinarsi a lei, ma non poteva permettere che la curiosità la divorasse, e le togliesse il senno così com'era accaduto a lei — forse perché temeva che, se fosse accaduto, qualcosa avrebbe cambiato la sua attuale condizione. Forse perché sapeva che, se fosse scesa là dove anche lei era arrivata, nulla sarebbe più stato lo stesso. Se le avesse chiarito subito i suoi dubbi, se le avesse mostrato anche solo attraverso le più dettagliate descrizioni ciò che lei tanto bramava conoscere, allora sarebbe riuscita a tenerla lontana. Avrebbe soddisfatto la sua curiosità, e non avrebbe corso alcun rischio. Probabilmente, avrebbe salvato entrambe. Ma, forse in parte a causa di una strana fiammella nervosa che le bruciava nel petto, rinunciò a quell'intenzione caritatevole, non si scostò dalla sua roccia sulla sponda del lago, anzi, arrivò persino a dare le spalle alla dea, cosa altamente irrispettosa. Non che comunque ci avrebbe prestato troppa attenzione, assorta com'era nei suoi pensieri, e poi la giovane non era certo una delle più permalose.
La ninfa sollevò a malapena lo sguardo, cercando conforto nella natura attorno a lei, ma si ritrovò a trattenere un sospiro di sorpresa quando, posando i suoi occhi di brace sugli alberi che la circondavano, poté notare una figura che ben conosceva: era un uomo giovane, dalle lunghe ciocche nere scompigliate ad incorniciargli il viso affilato, dal folto ciuffo corvino a coprirgli un occhio, rendendo l'altro simile alla più brillante delle torce nella penombra del bosco; le sue ampie ali vittoriose erano docilmente accoccolate tra le foglie verdognole, e le sue lunghe gambe ossute dondolavano nel vuoto sotto di lui. Era Thanatos, il dio della morte. Lui la fissava in silenzio, così immobile da parere una statua realizzata da un mortale più che una divinità in carne ed ossa, con un'espressione così profondamente placida da metterle i brividi; si rese conto che fosse vivo solamente quando lo percepì battere le palpebre. Voltò appena il capo, controllando che nessuno oltre a lei lo avesse notato e, non appena fu certa di non essere osservata, si alzò lentamente dalla sua roccia, dirigendosi a passo svelto verso il nuovo arrivato.
Non si era mai spinto così in profondità nel territorio della serra, né si era avvicinato così tanto a Persefone, la quale era, verosimilmente, a pochi battiti d'ala da lui. Demetra sapeva della sua presenza? Non da quanto si ricordasse lei. Era forse tempo di sottrarre ciò che da tempo era stato rubato? Di riappropriarsi di ciò che alla ragazza non apparteneva? Con mille domande nella testa, si fece sempre più vicina, finché non fu costretta ad inclinare la testa all'indietro per poter vedere il viso del dio. Egli non si mosse.

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