L'aria era fredda, pungente. Sferzava il suo viso come aghi conficcati nella pelle. Il sole era oramai tramontato e la fredda sera aveva preso il suo posto, portando la disperazione e la sua infinita tristezza. Le luci che illuminavano quella viva città non riscaldavano il freddo corpo di Tia. Per lui la sera era il momento più brutto della giornata. Si spegneva il sole e spegneva sé stesso. Matthia Bennet moriva nel momento stesso in cui il sole calava sull'orizzonte. Al suo posto nasceva Tia. Il ragazzo che camminava nella notte, che al freddo percorreva quelle strade e con lunghe falcate consumava l'asfalto.
La sua non era vita. La sua era un'incessante tentativo di farsi largo in quella giungla, il suo era in un incedere sempre più faticosamente, sempre più amaramente verso la fine della sua esistenza.
Quella misera vita che il destino gli aveva riservato era un amaro gioco delle parti. La vita di giorno era un susseguirsi di delusioni. Tentativi di riemergere dal nulla più assoluto nel quale era nato e vissuto, mentre la sera era un continuo scendere sempre più in basso, sempre più a fondo.
Odiava la sera più del giorno. Per quanto di giorno gli venissero sbattute ripetutamente porte in faccia, per quanti 'no' sentisse, di giorno la sua dignità rimaneva integra, intatta. Era Tia e basta. Un ragazzo senza lavoro, con pochi soldi, che viveva alla giornata, elemosinando qualche pasto nel disperato tentativo di non morire di stenti.
Era la notte che lui odiava, quando si trasformava in Tia. L'unico che riuscisse a portare nelle sue tasche soldi a sufficienza per coprire le spese di uno squallido appartamento infestato da scarafaggi, ma pur sempre un tetto sulla testa. L'unico che riusciva a guadagnare soldi per il cibo ogni giorno. Tutto ad un prezzo superiore di quello che poteva sopportare.
Il suo corpo era la moneta di scambio. Come catapultati in un'epoca lontana il baratto era l'unica cosa che rimaneva a Tia per poter guadagnare qualcosa ed allora, non avendo beni materiali, vendeva sé stesso. Barattava il suo corpo ogni notte in cambio di soldi.
I clienti erano di ogni tipo, di ogni classe sociale. Aveva visto passare sopra il suo corpo quasi tutta la fauna che alimentava l'economia florida di Seattle.
Aveva accettato ogni proposta proveniente da ricchi banchieri, con i loro eleganti abiti lo abbordavano, con la promessa di un buon guadagno a fine prestazione e, una volta finito, lo allontanavano, quasi si fossero appena sporcati con il cibo.
Aveva visto uomini di ceto medio, spendere pochi soldi per una prestazione da poco, una piccola fuga dalla monotonia o un'esperienza. Assaporare il gusto del proibito per poi scapparne e non farne più ritorno.
Aveva visto padri di famiglia, scappare dalle loro case affollate e rifugiarsi nel suo freddo corpo alla ricerca di un calore oramai svanito, inesistente.
Poteva classificare tutti i generi di clienti che lo avevano avvicinato, a seconda di quanto erano disposti a spendere e del perché venivano a cercare lui. Non lui in particolare, ma loro. Le anime della notte. Le piccole anime che vagano per le strade, sui marciapiedi, nei parchi. Sono silenziose, non pronunciano una parola eppure ascoltano molto attentamente. Una macchina avvicinarsi può presagire un nuovo cliente, una voce può indicare guai in vista.
Sono le persone dalle quali puoi trovare una via di fuga, poche ore di svago o un conforto, fittizio, che crei nella tua testa, ma che loro aiutano a creare. Sono quelle persone che donano l'unica cosa che hanno, il loro corpo per sé stesse e per gli altri.
Key non amava affatto quel lavoro. Chi lo amava? Nessuno, forse un pazzo o un ninfomane. Chi voleva passare la serata con tre, quattro persone differenti? Chi ama sentirsi toccare e baciare e penetrare da uomini diversi, da ragazzi in cerca della prima esperienza o vecchi luridi e bastardi?
Un pazzo un folle. E lui non era né l'uno né l'altro. Era solo disperato. La fame, il vuoto nello stomaco opprimente, che annebbiava la vista fino a farti star male, il freddo vero e insopportabile dell'inverno, senza un tetto e quattro mura dove ripararsi, quella era la disperazione che aveva provato. Un oblio nel quale non voleva ricadere.
Si strinse ancora di più nella vecchia giacca. Cominciavano a scendere alcune fastidiose gocce di pioggia e non aveva alcun riparo. Poteva solo sperare che fosse una nuvola passeggera, che portasse il suo fastidioso carico freddo e bagnato per alcuni minuto e poi lo lasciasse in pace.
Anche quella sera Tia camminava ligio nel suo ruolo, per quella strada trafficata. Sedeva al suo solito muretto, in attesa che qualche macchina si fermasse. Tanto lo sapeva, prima o poi qualcuno accostava sul ciglio della strada, abbassava il finestrino e lo invitava ad entrare.
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