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April 6th, 1928 - PLANETARIUM

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April 6th, 1928 - PLANETARIUM

È stata una mezz'ora lunga, trascorsa in un silenzio interrotto solo dal rumore del bicchiere poggiato sul tavolo da Edward. Una mezz'ora di silenzio straziante, sofferto da entrambi: sofferto da Sue, mangiata dal senso di colpa, seduta per terra in mezzo al pub, le ginocchia al petto e la testa poggiata sulle ginocchia, persa a guardare il vuoto e a sentire le gambe fremere, a mordersi le labbra, a imporsi di non scoppiare in lacrime e senza il coraggio o la forza di chiedere scusa a quell'uomo che ha dovuto bersi un altro bicchiere di rum per potersi sentire meglio. Le immagini di quel passato straziato gli occupano le pupille, entrano nella cornea, si impossessano delle orbite e gli strappano i bulbi - il suo corpo conserva pochi martiri, ma la sua mente ne ha accolti troppi. Abbandonato al tavolo, le tempie pulsanti, quei tredici anni che pesano ancora non indifferenti sulle spalle ora sembrano pesare ancora di più dopo le parole della giovane donna seduta per terra. Sue forse non si sarebbe mai potuta spiegare o forse avrebbe compreso tardi il peso della perdita, di una perdita simile, di mille perdite. Forse Sue lo comprenderà nella seconda guerra che secondo lei arriverà tra dieci anni - Edward vorrebbe non lo comprendesse mai: la perdita e il dolore hanno mille modi per farsi comprendere, e non dovrebbe essere la guerra a farlo. Si impone di non rovinare quella sera: se è vero che sono persi nel mezzo di due guerre, allora sarà meglio godersi quell'intermezzo, sarà meglio poter dimenticare quel passato asfissiante, sarà meglio non pensare a quel futuro così pericoloso. Se sono nel mezzo tra due guerre, tra due caos che potrebbero distruggere tutto, deve far sì che quella notte, nella storia nel mondo, possa restare intoccata e non possa essere distrutta da nessuna bomba, da nessuna dittatura, da nessun urlo. Deve far sì che nessuna guerra e nessuna distruzione si abbatta su quella notte senza tempo costruita per lui e Sue. Allora beve l'ultimo goccio di rum, si alza, si sistema i pantaloni e la camicia con cui stava dormendo, sistema il cappotto sulla sedia e si dirige verso la giovane donna seduta per terra, porgendole la mano.

Sue trasalisce alla vista di un movimento sconosciuto alla sua mente persa, e alza lo sguardo, trovando gli occhi azzurri e intrisi di malinconia del proprietario del Planetarium, che la guardano intrisi di dolcezza e di leggerezza: Sue spera di non aver mai avuto l'occasione nemmeno di averlo avuto nella stessa stanza, perché altrimenti si potrebbe maledire per non aver notato prima un viso simile, per non aver notato prima un uomo che, nonostante le sofferenze che si tiene nascoste dentro al petto, riesce a comunicare in quegli occhi nostalgici una luce che sa di libertà e spensieratezza. Vorrebbe piangergli sulla spalla tutta la colpa che avverte in quel momento, vorrebbe sussurrargli così tante volte "scusa" nell'orecchio fino a non avere più fiato o saliva, vorrebbe custodirlo ancora in quell'abbraccio, per proteggerlo da quel mondo che potrebbe fargli di nuovo male, da un mondo che in parte conosce anche lei, un mondo che non vuole risparmiarli. Ma ora è lui a tenderle la mano, lui che di scuse non ne vuole, lui che vuole solo la mano piccola di Sue stretta alla sua, lui che vuole solo risentire la guancia soffice di lei contro la sua ispida, lui che vuole ancora rivedere la fossetta di lei sulla guancia destra.

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