13. Casa dolce casa

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Non lo fa.
Non mi scrive nulla, così come gli altri. Aspetto e aspetto ancora, però l'unica risposta che ricevo è quella del gelido vento che sfreccia tra le colline e che passa muto, senza darmi una valida risposta.
La loro promessa di starmi sempre accanto si è infranta come un vaso di cristallo che si schianta al suolo e sto male per questo. Ho passato gli ultimi mesi a tormentarmi, a capire cosa c'era di sbagliato in me, a cosa li ha portati a non scrivermi più. Insomma, la loro scusa fissa è quella del lavoro, lavoro e solo lavoro. Scusa che non tiene a lungo: com'è possibile che non riescano a trovare nemmeno un minuto per scrivermi, uno spazio di tempo tra il turno pomeridiano e la sera? Mi sento troppo importante io, sono troppo vanitosa a ritenere che devono badare di più a me? La vera risposta è che non lo so: nei giorni migliori mi dico che è colpa loro, che non hanno mantenuto la promessa che mi hanno fatto. Quando sono giù di corda, mi dico che devo abbassare la cresta e scendere dal piedistallo che mi sono creata quando avevo la testa piena delle belle parole di tutti...
Ora basta. Sono veramente stanca di ricevere solo delusioni come consolazione per il mio impegno: Hanje o no, tutti quanti o no, ora avrò una casa e una squadra che mi sarà costretta ad accettarmi proprio come farà con gli altri nuovi cadetti, quindi almeno un posto nel mondo sarà mio di diritto. Ormai, quando mi convinco sempre più di non contare nulla per loro, mi rassegno all'idea di essere guardata e non riconosciuta. Forse fissata, come in quelle circostanze in cui si rimugina sull'identità della persona salutata per la strada, con la consapevolezza di conoscerla ma di non ricordarla. Forse Petra scruterà la folla di cadetti alla ricerca di un volto familiare, ma poi penserà che avrò mollato all'ultimo e lascerà correre.
O forse sono troppo paranoica.
In ogni caso, ho quasi raggiunto il mio traguardo e non mi arrenderò certo adesso.

Finalmente è finita, oggi potrò prendere il mio diploma e uscire di qui dopo tre lunghissimi anni

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Finalmente è finita, oggi potrò prendere il mio diploma e uscire di qui dopo tre lunghissimi anni. Stamattina ho provato una strana sensazione quando mi sono svegliata, ho cercato di imprimere nella memoria ogni singolo attimo della mia routine nella speranza che, un giorno, potrò tornare a sfogliare l'album mentale dei miei ricordi riempito con questi momenti, magari in punto di morte.
Ho lentamente ripercorso i corridoi che hanno segnato il mio tormento, il tragitto fino alla sala della posta, fino al campo di addestramento, ho passato la mano sulla superficie del tavolo a cui mi sedevo sola in mensa, mi sono stesa sull'erba ruvida del bosco in cui ci addestravamo. Nel mio lento passeggiare ho anche rivisto i vari compagni: c'era chi si scambiava gli indirizzi per andarsi a trovare, chi raccoglieva le proprie cose e chi dibatteva su quale squadra scegliere... già, le squadre. In teoria ognuno dovrebbe fare domanda per il trasferimento in una squadra dopo stasera, poi tra un mese dovremmo essere trasferiti nella nostra nuova base. Mi domando quanti li rivedrò nel Corpo di Ricerca, soprattutto per quanto saranno in circolazione. Passo davanti a tutti quelli che mi hanno ignorata nel tempo e qualcuno mi saluta distrattamente. Vedo persino Shojiro e cerco di scappare nell'ombra. Ma mi accorgo che è... strano. Ha lo sguardo vacuo e non parla con nessuno. Probabilmente il mio istinto di sopravvivenza è andato, perché mi avvicino a lui e gli chiedo se si sente bene.
"Certo che sì Sumire... sono solo, ehm, spaventato dalla scelta di oggi."
"Spaventato... sembra strano accostare questa parola al tuo nome". Attimo di silenzio, poi mi chiede: :Ehi, senti... tu dove vorresti andare? In squadra, dico."
"Entrerò nel Corpo di Ricerca. Perché?"
"Ah. Giusto per sapere. Beh, buona fortuna Sumire... ci si vede, spero".
Si gira e se ne va, lasciandomi parecchio spiazzata... l'agitazione gioca bruttissimi scherzi anche alle persone spavalde come lui.

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