Inversione di ruoli

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"Erick!"
Sento un urlo proveniente dal piano terra di casa mia; mia madre Carolyn.
"Dimmi mamma." Affermo urlando.
Aspetto la risposta un paio di secondi.
"Vieni a mangiare su, che è pronto."
"Arrivo mamma." Replicai.
La mia attenzione ritorna al tema di inglese. Con la bruta copia accanto, leggo l'ultima frase. La soppeso e cerco di capire se ha senso o meno. In genere non ero molto bravo nella scrittura di temi anzi: i miei voti erano sufficienti la maggior parte delle volte. Tuttavia, misuravo le parole, cercavo continuamente sinonimi per non utilizzare sempre le solite parole monotone. Il mio intento era quello di 'colorare' il tema per renderlo interessante. Insomma; mi impegnavo in quella materia, al fine di migliorare i miei voti e per dimostrare a me stesso e alla professoressa, che sapevo scrivere.

Ed eccomi; allo step finale. Ho rivisto la frase e l'ho modificata leggermente per renderla più fruibile. Posai la penna blu sul tavolino. Le penne nere mi trasmettevano troppa tristezza. Al contrario il blu è il colore della notte; è calmo e felice. La mia scrivania bianca era spaziosa a sufficienza per sistemare sopra di essa tutto ciò di cui abbisognavo per svolgere i compiti e studiare: computer, vari libri e quaderni.
Era abitudine per me riordinare la scrivania una volta finito il mio dovere scolastico, così da comunicare alla mia mente che il lavoro si era concluso. Si potrebbe definire una sorta di mania, ma era finalizzata allo stare meglio. Se entravo nella mia camera ed era in disordine, mi sentivo in colpa e avvertivo il bisogno di riorganizzare la stanza. Analogamente mi sembrava di riordinare le idee della mia mente e di comprenderle meglio. Il mio era un bisogno psichico. Disposi la cancelleria nel mio astuccio nero. Diario alla mano e vediamo che materie ho domani.
"Erick vieni dai che sennò si raffredda!"
Ci stavo mettendo un po' e mia madre mi riscosse dai miei pensieri, ricordandomi che il cibo mi aspettava. Avevo fame, motivo per cui avrei fatto velocemente quello che dovevo.
"Un'attimo mamma."
'Vediamo che corsi ho. Dunque... Matematica, Storia, Chimica, Inglese e Cinese! Evviva! '
Pensai tra me e me.
Quand'ero bambino avevo scoperto la mia passione per la Cina. Tutto di quel continente mi entusiasmava: lingua, cultura, tradizioni, leggende metropolitane e soprattutto il kung fu.
Avevo intrapreso la pratica di quest'arte marziale alle elementari. A mano a mano che il tempo scorreva e io crescevo, erano aumentate la soddisfazione procurata da quello sport e la mia esaltazione per esso. Il kung fu era stato il mezzo che mi aveva permesso di conoscere
me stesso, le mie potenzialità e i miei limiti. Il termine Wushu, nome della palestra che frequentavo sin da piccolo, indica le arti marziali e risale alla dinastia Liang, che aveva governato in Cina dal 502 al 557. Il maestro era un uomo di media altezza, muscoloso e con
capelli corti corvini. A partire dalla prima lezione, nella quale mi affrontai con lui, compresi la forza di quell'uomo.
La pratica di questo sport mi concesse di cavarmela in situazioni pericolose e soprattutto mi insegnò ciò che ho sempre ritenuto fondamentale: il rispetto. Una delle poche regole esistenti, nonché quella che diventò la mia massima di vita era: 'mai colpire alle spalle.'
Mio padre amava i film di Bruce Lee, pertanto elaborai l'abitudine di guardarne almeno uno a settimana con lui. Era divertente trascorrere del tempo con lui e osservare le mosse di quell'attore meraviglioso.
Fu proprio lui a scoprire, grazie ad un suo collega, un corso per imparare il cinese che si teneva lì vicino a casa mia. Potevo tranquillamente andarci per conto mio, secondo lui. La mia non fu una vera e propria decisione; semplicemente mi buttai e intrapresi lo studio di quella lingua. Ero in quarta elementare, motivo per cui avevo voglia di uscire con i miei amici e divertirmi, non di stare sui libri, nonostante la Cina fosse la mia passione. Abbandonai il corso dopo alcuni mesi, dato che mia madre si era accorta che era una lingua estremamente difficile e che io non avevo concentrazione sufficiente per impararla in quel momento. Se, una volta cresciuto, avessi voluto studiarla, avrei cercato un corso scolastico adatto; quello non era il periodo giusto. In effetti imparavo si è no una decina di vocaboli cinesi al mese. Per scegliere le materie non obbligatorie, il primo giorno di superiori venivano esposti dei tabelloni. Qui vi erano scritte tutte le materie scolastiche, con le classi di quelle obbligatorie e le aule di ognun corso. Cercai forsennatamente se ci fosse il corso che volevo e di cui sapevo l'esistenza. ' Cinese; eccolo! ' Corsi ad iscrivermi. Scoprii la mia voglia di imparare quella lingua e l'impegno che usavo per raggiungere il mio scopo. Era interessante scrivere tramite i caratteri cinesi. La disposizione delle parole ed la logica grammaticale erano completamente diverse da quelle inglesi; elemento che mise alla prova. Dopo le prime difficoltà, fui in grado di capire la grammatica e da allora tutto cominciò ad essere più semplice. Ovviamente ogni giorno mi dedicavo al cinese; o perlomeno tentavo,
altrimenti non sarei riuscito bene nel mio obbiettivo.
Questa passione mi aveva indirizzato a visitare la Cina. Ero andato a Hong Kong con la mia famiglia e a Pechino come gita con la mia palestra. Quest'ultima si era rivelata meravigliosa. I colori, gli edifici e i templi erano stati gli elementi che mi avevano fatto innamorare di questo luogo, tanto che, una volta tornato a casa avevo un nuovo sogno: vivere a Pechino. Avevo visitato con una guida ben preparata il palazzo imperiale delle dinastie Ming e Qing, che costituivano parte della Città Proibita. Ovviamente avevo appuntato nel mio taccuino alcune delle informazioni che mi erano parse interessanti. Costruito tra il 1406 e il 1420, il complesso era composto di 980 edifici divisi in 8.707 camere. Venne nominato "il più grande palazzo del mondo", in quanto si estendeva lungo 720.000 m². Di conseguenza visitammo solamente le strutture ritenute le più importanti. Entrare in ognuna di esse avrebbe avuto bisogno di troppo tempo. Le colorazioni erano imperniate di simbolismi. Il giallo domina i tetti della Città Proibita ed è il colore dell'imperatore. La biblioteca presso il Palazzo della Gloria letteraria ha le piastrelle nere, visto che questo colore è stato associato con l'acqua e quindi antincendio. La residenza del principe ereditario ha mattonelle verdi, perché questa tinta era associata con il legno e quindi con la crescita. Le sale principali delle corti esterne ed interne sono disposte in gruppi di tre, a ricordare il diagramma Quiang, che rappresenta il Cielo. Le residenze della corte interna sono invece disposte in gruppi di sei, a formare il trigramma Kun, che rappresenta la Terra. Hong Kong mi aveva incantato quanto Pechino. Come nella capitale, si potevano ammirare alcuni templi colorati carini. Una differenza era che ad Hong Kong erano presenti molti più grattacieli e meno spazi verdi rispetto a Pechino. Avevamo prenotato in un hotel e i primi giorni avevamo visitato la città. Il cibo era delizioso, infatti quando tornai a casa ero ingrassato, e non poco. Gli ultimi tre giorni eravamo partiti alla volta dell'isola di Lantau; la più larga di tutto il territorio di Hong Kong che, secondo le recensioni che avevo letto, era meravigliosa. Era proprio vero: era bellissima.
Abbondava di parchi naturali, spiagge, montagne e percorsi fra la natura, elementi grazie ai quali mi rilassai.
Questa digressione mentale era avvenuta nel corso di pochi secondi, durante i quali mi ero avviato verso la sala da pranzo. Mentre scendevo le scale a chiocciola in marmo, iniziai
a sentire il profumo delle patate arrostite, accompagnato da quello della salvia e di rotolo di coniglio. 'Che buono...' Era il mio cibo preferito.
All'interno della sala da pranzo color arancione tenue stavano i mobili della cucina, maggior parte dei quali erano in legno di ciliegio, qualità che mia madre adorava. Era una donna
appassionata alle casette del sud Tirolo in legno di dimensioni medie, e quindi aveva riportato nella nostra abitazione alcuni aspetti di quelle case. Al lato del lavello, il frigo bianco luccicava alla luce di un lampadario in ferro con quattro braccia, ciascuna delle quali finiva con una lampadina. Sotto ad esso il tavolo ligneo imbandito per due persone.
Una donna sulla quarantina aveva appena spento i fornelli. Si voltò, facendo danzare nell'aria i suoi lunghi capelli biondi e lisci, che le incorniciavano il volto a forma di diamante.
Notò che ero arrivato, e mi lanciò un'occhiata rapida.
"Erick, finalmente sei arrivato." La sua voce stanca risuonò nell'aria. "Aiutami per favore. Posa questo in tavola."
Mi porse una sottopentola, che misi sopra il ripiano. Posò la pentola su di esso e cominciò a distribuire gli alimenti in piatti lisci.
"Su siediti."
Una volta assisi sulle nostre sedie, diede inizio all'inquisizione sulla giornata. Era abitudine ormai: ci raccontavamo le attività che avevamo svolto durante la giornata.
"Allora; com'è andata a scuola?"
"Tutto il solito."
I suoi occhi mi scrutarono.
"Ellen come sta? Ho sentito che ultimamente è un po' giù di morale."
"Da chi l'hai sentito scusa? E poi perché dovrebbe importarti?"
Ero leggermente infastidito. Non capivo il motivo di questa domanda.
"Erick, suvvia, la conosco. M'è l'hai presentata tu, potrò pure essere curiosa sul suo stato d'animo... o no?"
Smisi di mangiare per un momento. Alzai lo sguardo, per abbassarlo alcuni attimi dopo, deciso a rispondere.
"Diciamo che non stava molto bene oggi. Il motivo è il solito."
Calò un silenzio assordante. Nessuno parlava.
Rumore di posate che sbattono contro i piatti e che vengono accostate alla bocca per nutrirsi. Mia madre era cupa; lo diventava sempre
quando si parlava di Ellen.
"Mi rendo conto che deve essere molto difficile affrontare la morte del proprio padre, ma..."
Tentennò. "Non credi anche tu che dovrebbe stare meglio." Gli occhi verdi di lei erano preoccupati. "Io la vedo ogni tanto, e mi sembra tanto triste Erick. Non sarebbe forse il caso di aiutarla..."
Troncai quello che stava per dire, non potevo sopportare un discorso del genere.
"No mamma! Lei non ha alcun bisogno di psicologi, terpisti e di tutta quella gente. L'unica cosa di cui necessita realmente sono gli amici, io e le sue amiche che le tiriamo su il morale."
Stava per controbattere, quando decisi di concludere quella sgradevole conversazione.
"Tutto qui." Mi indicai. "Le amicizie vere sono ciò che le serve, e le ha; punto."
Il silenzio ritornò a farsi sentire. Questa volta non era teso come quella precedente, bensì era calmo. Carolyn sorrise. Reagii allo stesso modo.
Solo allora notai che mio padre non era a casa. In effetti non l'avevo sentito tornare dal lavoro. Mentre mia madre era casalinga, mio papà faceva l'operaio. La sua giornata lavorativa cominciava alle 7 e si concludeva alle 8 di sera circa, motivo per cui era spesso stanco e la sera si addormentava presto. Eravamo abituati a cenare quando tornava per essere tutti assieme, ma erano le 20.30 e lui ancora non c'era. Certo; sarebbe stato illegale lavorare così tante ore, eppure nessuno cercava veramente di individuare ed evitare lo sfruttamento. In cinque anni da quando mio padre era in quella fabbrica erano avvenuti due controlli. Non avevano trovato nulla di irregolare negli orari di entrata e di uscita segnati dai badge sembrava. La verità era che il proprietario della fabbrica li faceva rimanere dopo averlo strisciato, promettendo una paga maggiore perché il lavoro in nero frutta di più. Nonostante fosse abituato a lavorare svariate ore per guadagnare di più, era la prima volta che non cenava con noi.
Esternai i miei dubbi.
"Mamma; perché papà non è a casa?"
Si immobilizzò un momento, per poi liquidare il mio quesito senza nemmeno considerarmi visivamente.
"Ne parliamo dopo."
Ero consapevole del legame tra i soldi e l'assenza di mio padre. Nonostante l'inconveniente cercai di gustarmi il resto della mia cena. Discutemmo assai poco. La tensione di mia madre era palpabile. Il silenzio era innaturale; contrastava con l'usuale vivacità della cena, momento di riunione della famiglia e discussione. Quella sera invece, eravamo io emia madre, seduti attorno al tavolo, muti. I miei occhi guizzavano dal mio piatto, alle pietanze, al viso di Carolyn, visibilmente preoccupato. Trascorsero i minuti e, finalmente, concludemmo la nostra cena. Mi sollevai dalla mia sedia e mi appropinquai a sistemare la tavola. Raccolsi i piatti, impilandoli e li risposi vicino al lavello. Aggiunsi i bicchieri al loro fianco e infine riposi in frigo l'acqua. In tutto questo l'atmosfera non era cambiata molto.
Carolyn uscì un attimo per stendere la tovaglia, rientrando poco dopo. La ripose nell'apposito cassetto. Infine, si sedette, mentre io indossavo i guanti per lavare le stoviglie sporche.
"Erick sono sicura che tu lo sappia..." Mia madre iniziò il discorso. "La vita costa; e non poco. Le cose stanno così, punto."
Mi voltai un momento, per constatare la sua spossatezza. I suoi erano gli occhi di una donna positiva che cercava sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno; ma in quei tempi trovava difficoltà. Sentiva sulle sue spalle il peso economico di una famiglia.
"Alcune volte abbiamo avuto problemi per arrivare a fine mese, pagare le bollette e tutto quello che bisogna pagare." Gesticolò con le mani, come ad indicare il marasma di elementi che non avrebbero dovuto costare così tanto, secondo lei. "Il mio lavoro è relativamente precario. Per quanto lavori tuo padre, non guadagna molto. Tuo fratello non parliamone: non contribuisce minimamente, anzi chiede soldi a noi per vivere, perché nemmeno lui guadagna a sufficienza a quanto pare."
Jacob era mio fratello. Non appena concluso il suo percorso scolastico, s'è n'è andò di casa per ottenere indipendenza. Si era accordato con due amici per condividere un appartamento. Tuttavia, lo cacciarono dopo metà anno, dato che non lavorava e non pagava nulla. Tornò da noi supplicante e ovviamente lo accogliemmo in casa. Maturò; trovò lavoro al bar Da Bold e anche lui cominciò a guadagnare denaro. Quando ritenne il suo salario adeguato, andò dai suoi amici a vivere. Ricevevamo sue notizie direttamente da lui, il quale, almeno una volta al mese, veniva a visitarci per salutarci. Ci aggiornavamo a vicenda sulla vita e su tutte le eventuali novità.

Posai l'ultimo piatto pulito sullo sgocciolatoio.
Carolyn stava proseguendo con la sua spiegazione.
"Se riusciamo ancora pagare l'affitto è soprattutto grazie a tuo padre. Il problema è sorto recentemente: stanno licenziando personale. Pur di non essere liquidato, lui ha accettato la diminuzione del suo salario... però ha deciso di estendere la sua giornata lavorativa." Il suo viso si era andato via via rabbuiando. Le saltuarie rughe si erano accentuate; i suoi occhi erano privi della loro usuale luce.
"Insomma ora lavora di più."
Sbuffò e mi sembrò un cavallo impaziente di correre. Al contrario lei era ansiosa di rilassarsi e staccare la spina del cervello per sentirsi protetta e al sicuro dai pericoli del mondo e
dalla sua crudeltà.
"Finisce alle 21.30. Tutto qui."
Aveva un gran bisogno di sfogarsi. Era una di quelle persone spugna, che assorbono tutto quello che accade. Aveva il suo limite, come ognuno d'altronde, ed era stato oltrepassato dall'ansia e la paura per il futuro.
"Tua sorella riceve la borsa di studio, è vero. Nondimeno copre solo le tasse di iscrizione; quelle dell'appartamento deve pagarle..."
Mia sorella studiava criminologia in una città lontana quattro ore di viaggio da Midwen. Era al secondo anno e stava amando l'università. Ci scriveva spesso per aggiornarci e ogni volta spiegava che era meravigliosa la gente, i posti e le materie, che risultavano interessantissime
a lei. La vedevamo nelle festività in genere, periodo in cui tutta la famiglia al completo si ricongiungeva per divertirsi all'insegna della felicità. Ciò nonostante l'ultimo Natale era stato
complicato ignorare mio padre e mia madre, che avevano lavorato anche la vigilia.Ero perfettamente consapevole dei problemi finanziari della famiglia.
Misi l'ultima stoviglia nell'apposito posto. Levai i guanti e lavai le mie mani. Carolyn era eretta a fianco a me; poco distante. Respirò profondamente, tentando forsennatamente di trattenere le lacrime. Una goccia le rigò la guancia, per poi essere seguita da un'altra e un'altra ancora. Stava piangendo lacrime amare.
"Scusami lo sfogo. Sono preoccupata amore."
Riuscì a parlare fra un singhiozzo e l'altro.
L'abbracciai stretta. Profumava di fragola.
Sembrava che i ruoli si fossero invertiti.

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