Capitolo quattro.

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Harry.

Mi rigirai svariate volte nel letto dalle coperte bianche e soffici, inspirando il profumo di queste dato che erano state appena lavate; al mio olfatto però, arrivava anche l'odore della colazione appena preparata da Geneviève che si occupava di me e mia sorella Gemma dalla nascita. Presi un respiro a pieni polmoni prima di espirare con fare esausto, appoggiando i palmi delle mani sul materasso, alzandomi poco dopo dal letto, infilandomi subito le pantofole di velluto blu in modo da non entrare in contatto con il freddo glaciale del parquet. Allungai qualche piccolo passo verso la porta di ciliegio della mia camera accogliente e una volta fuori da questa mi apprestai a scendere le scale in modo da recarmi in cucina dove era presente una donna abbastanza in carne e dalla carnagione scura con in volto sempre un'espressione allegra e, appena mi rivolse un sorriso caldo e confortante, gli angoli delle mie labbra si stirarono mostrando i denti e le fossette.

«Tesoro la signora Anne mi ha detto di dirti che oggi non potrete andare pattinare insieme perché è impegnata con Gemma.»

Appena Geneviève mormorò quella frase con tono dispiaciuto, il mio sorriso colmo di allegria si spense tutto d'un botto: questo era l'ennesimo anno della mia vita in cui mia madre mandava all'aria le nostre tradizioni. Erano dodici anni che sotto il periodo di Natale non veniva con me a pattinare sul ghiaccio; non lo faceva più da quando mio padre se n'era andato nella Grande Mela con una bionda ossigenata che possedeva più seno e glutei che cervello. I miei genitori avevano sempre avuto tempo per mia sorella perché "possedeva delle qualità brillanti" come dicevano loro ed io non ero affatto invidioso perché di mantenere l'azienda della famiglia me ne interessava ben poco, ma non c'erano mai stati da sposati per me e da quando si erano persi l'uno con l'altra ormai io ero semplicemente un essere vivente per loro, qualcuno che spendeva i loro soldi in "stupida arte" e mangiava sotto lo stesso tetto della donna che l'aveva mantenuto al sicuro dentro di sé per nove mesi, già: non ero niente.
Sospirai cercando di eliminare quei pensieri, allungando dei passi in modo d'avvicinarmi al piano cucina di marmo pregiato posto al centro della stanza in modo da poter afferrare saldamente una mela che era appoggiata nel cestino moderno. Addentai il cibo nutriente e sano dal colore verde mentre ero attento a guardare i movimenti della donna con i capelli neri raccolti all'interno di uno chignon basso e per interrompere il silenzio estenuante mormorai con tono roco e con un accenno di dolcezza:

«Sai Gen, stasera ho una festa: la mia prima festa a Doncaster! Louis, il fratello di Lottie, mi ci accompagna.»

La donna si voltò in modo da guardarmi entusiasta, le faceva sempre piacere sapere qualcosa riguardo la mia vita e soprattutto io amavo condividere con lei qualsiasi dettaglio di questa dato che mi aveva fatto più da madre lei che quella vera. Le rivolsi uno dei miei più sinceri sorrisi, percependo l'ansia salire al solo pensiero che sarei andato ad una festa con Louis, una di quelle vere.

«Oh piccolo sono così felice per te, ti conviene prepararti!»






Erano già le otto e mezza e non c'era ancora traccia di Louis, cominciai a sentire una tristezza percuotere il mio corpo: ci tenevo ad andare a quella festa, non capivo il motivo preciso ma volevo esserci. Sfregai le mani tra di loro in modo da allentare l'ansia prima di appoggiare lo sguardo sullo specchio posto dinanzi a me: i pantaloni neri ed aderenti erano stirati perfettamente come la camicia, tutto era al suo posto ed ero più che presentabile. Mi decisi a scendere velocemente le scale per poter attendere l'arrivo del ragazzo in soggiorno quindi, una volta arrivato in quella stanza, mi fermai al fianco del divano moderno e costoso notando che mia madre vi ci era seduta con in mano uno dei suoi soliti drink. Non mi soffermai nemmeno a salutarla visto che non le sarebbe interessato se l'avessi fatto o meno quindi incrociai le braccia al petto leggermente scoperto a causa della scollatura della camicia. Mentre il tacchetto dei miei stivali in pelle batteva velocemente contro il parquet ben curato, al mio orecchio arrivò il suono del campanello così mi catapultai ad aprire la porta con la mano tremante a causa dell'emozione e appena la spalancai, ai miei occhi risaltarono dei capelli corvini ed il corpo di un ragazzo molto magro ma ben allenato. Aveva indosso una giacca di pelle nera e dei jeans dello stesso colore: non era affatto Louis. Sospirai esausto, non potei non contenere la delusione quando questo allungò la mano verso di me mormorando con tono roco e cordiale:

«Sono Zayn, piacere. Louis è già alla festa e mi ha chiesto di portartici, spero questo non ti causi alcun problema.»

Mi limitai a scuotere la testa, scrollando le spalle nella speranza che la mia delusione e gli occhi leggermente lucidi sarebbero spariti. Ci tenevo ad andarci con Louis, era l'unica persona che ancora non mi aveva mandato a quel paese, volevo essergli amico ma evidentemente anche lui preferiva altro a me che poi: come non biasimarlo? Io non ero niente nemmeno per la mia famiglia, come potevo diventare qualcuno per un essere umano come me?
L'interminabile lasso di tempo che condivisi con quel ragazzo estremamente attraente e dalla carnagione olivastra, fu più che silenzioso, forse lui, come me, era una persona altamente diffidente.
Appena ai miei occhi risaltarono delle luci di vari colori all'interno di una casa, tirai un sospiro di sollievo perché finalmente eravamo arrivati nel luogo dove si sarebbe tenuta la festa e magari avrei potuto stare con Louis anche se gli avevo assicurato che non mi sarei intromesso ulteriormente nella sua vita ma io le promesse le facevo per non mantenerle.
«Buona festa zuccherino.»

Con quella frase il ragazzo dai lineamenti perfettamente geometrici mi congedò lasciandomi da solo in mezzo a mille persone che ridevano, condividevano birre e ballavano. Il caos totale. La testa stava già cominciando ad esplodere e non c'era traccia di Louis da nessuna parte. Stavo inizianso a sentirmi preso in giro e la delusione accresceva dentro di me; non gli era bastato lasciarmi ieri ma anche oggi: era veramente ripugnante quel ragazzo. Stavo cominciando ad odiarlo, avrei voluto vederlo io in una nuova città senza amici e con una famiglia poco attenta ma invece no, lui aveva una vita perfetta e per questo doveva rovinare quella degli altri. Sbuffai. Cominciai ad addentrarmi nella folla in modo tale da poter salire al piano di sopra, sperando di trovare una stanza senza stupide coppiette con gli ormoni a mille e l'alcool nelle vene cosicché potessi stare in un posto tranquillo. Dopo spintoni e gomitate riuscii a ritrovarmi con i bicipiti davanti alle scale, quindi con grande forza volontà le percorsi velocemente, raggiungendo così il secondo piano e, di fronte a me c'era una porta accostata con la luce spenta, quindi pensando fosse vuota, allungai dei passi verso questa e una volta con il busto a pochi centimetri di distanza da essa, appoggiai il palmo della mano sulla sua superficie, aprendola e ciò che risaltò ai miei occhi, facendomeli sgranare, mi mandò totalmente la mente in panne.
Rabbia.
Dolore.
Delusione.
Non potevo crederci.

The boy next door.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora