17. Vittoria

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Maya

Tic-tac, tic-tac.

Non riuscivo a sentire altro che il rumore snervante dell'orologio, in quell'immensa stanza delle torture. C'era un silenzio assordante, ognuno di noi aveva la testa invasa dai propri pensieri, che si accomunavano tra di loro come un enorme groviglio complicato da sciogliere.

Jason era seduto sul pavimento. Il suo volto era basso, i suoi gomiti appoggiati alle ginocchia piegate, le sue mani che tremavano leggermente. Sembrava essere più pallido del solito, quel giorno. Al suo fianco, Alex, muoveva la gamba freneticamente come se avesse un tic nervoso. Si alzava, camminava, si sedeva, poi ripeteva di nuovo le stesse identiche azioni.

Archie, invece, era seduto sulla sedia in legno. Si guardava intorno di tanto in tanto, lanciava delle occhiate all'orologio affisso alla parete e poi tornava nella stessa posizione. Jamie, vicino a lui, sospirava più volte con evidente ansia. Teneva le mani congiunte, il volto basso e mordicchiava il labbro con notevole insistenza.

Nessuno parlava.

In quella maledettissima sala d'attesa, nessuna voce era pronta a smorzare quell'aria di angoscia, tensione, agonia.

Ce ne stavamo tutti nel nostro religioso silenzio, la nostre menti parlavano all'unisono, i nostri cuori non smettevano di battere all'impazzata. Ma di parlare, nessuno ne aveva voglia.

Eravamo in quel limbo tremendo che ci portava nel tenebroso ignoto. Non avevamo notizie di Hailey da più di dieci minuti, sapevamo solo che era entrata insieme ai suoi genitori nello studio del medico.

Portai lo sguardo verso Jason, che cercava con tutto sé stesso di trattenere le lacrime pronte a scendere. Feci qualche passo verso di lui e mi lasciai scivolare al suo fianco, senza proferire parola. Gli presi la mano terribilmente sudata e la racchiusi nella mia, come a volergli esprimere un conforto muto ma necessario. Lui mi rivolse uno sguardo e – inevitabilmente – una lacrima solitaria percorse la sua guancia sinistra.

Era un padre impotente davanti alla morte del proprio figlio. Un padre che non avrebbe mai potuto avere la bellezza di conoscere tale responsabilità.

E io mi sentivo come lui: impotente nei confronti di un amico che stava soffrendo di un dolore indescrivibile.

«Ti va di fumare una sigaretta insieme?» gli chiesi, sperando che accettasse e decidesse di prendere un po' d'aria fresca.

Il ragazzo annuì leggermente, alzandosi e stiracchiandosi per sgranchire quei muscoli leggermente addormentati. «Noi andiamo sotto, se ci fossero delle novità per favore chiamatemi.» borbottò, guardando i ragazzi.

Jamie alzò lo sguardo dal pavimento, tirando su con il naso. «Certo, amico. Rilassati un po'.» rispose, per poi tornare con gli occhi sullo stesso punto di prima.

Scendemmo al piano di sotto e tirai due sigarette dal pacchetto, passandola una al mio amico. L'accese e guardò dritto davanti a sé, in assoluto silenzio. E io facevo la stessa cosa, perché non avevo parole confortevoli da riservargli per un momento così delicato. Mi sentivo un'emerita stupida.

«Pensi che sarei stato un buon padre?» mi chiese di colpo, facendomi voltare nella sua direzione.

Misi una mano in tasca, schiarendomi leggermente la voce. «Sì, ne sono sicura. Saresti stato un padre perfetto nelle sue imperfezioni, un padre umano.» sussurrai, aggrottando leggermente la fronte per evitare di piangere.

Il ragazzo si passò la lingua tra le labbra, probabilmente per inumidirle visto che non toccavamo acqua o bevande da più di un'ora. «Avrei voluto scoprirlo, lo sai? Mamma era contenta di diventare nonna, papà un po' meno ma avevano accettato questo mio cambio improvviso di rotta. Ecco perché oggi non sono qui, voglio dire... il loro primo e unico nipote morirà da un momento all'altro.»

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