È tutto immobile. Non solo ogni cosa ha cessato di muoversi ma è anche sceso un silenzio sovrannaturale. Lo percepisco schiacciante; tendo l'orecchio per captare rumori in lontananza, ma non arrivano e capisco che questa assurda situazione non è circoscritta a un'area limitata. È totale. L'intero spazio intorno a me è fermo per una ragione che non comprendo e l'assenza di suoni è talmente imperante che mi sento risucchiata in essa.
Fruscio.
Mi sposto di poco e il mio giaccone emette un rumore lieve dato dallo sfregamento della stoffa; i rumori ci sono, quindi: li genero io stessa. È una magra consolazione ma in un certo qual modo aver stabilito questo punto fermo, mi fa sentire meno smarrita.
Muovo dei passi verso il marciapiede per togliermi dalla rotta di questa macchina decisamente fuori misura per circolare in una città semplice come la mia.
Mi fermo sul bordo della strada e mi guardo attorno accigliata: chissà se la mia voce sortirebbe una reazione a questo silenzio, forse se urlassi qualcuno mi sentirebbe.
Esito.
Non ho voglia di parlare. Non ne ho mai avuta troppa.
In ufficio, in famiglia, nelle uscite sono sempre quella che rimane in un angolo ad ascoltare, quella che viene schernita bonariamente con un "non parlare troppo che ci rincretinisci!". Quella.
La realtà è che considero la mia voce sprecata: l'emettere suoni, dare conferma della mia presenza, è una perdita di tempo. Quando ero piccola c'è stato perfino un periodo in cui avevo smesso di parlare del tutto, perché, nella mia famiglia, c'era la 'simpatica' abitudine di schernire qualsiasi cosa chiunque dicesse: scimmiottare le voci rendendole ridicole, prendere qualsiasi frase come pretesto per fare squallide battute e in generale sminuire qualsiasi domanda, sviando il discorso su argomenti fuori luogo e privi di una qualsiasi base su cui instaurare un dialogo. Quindi, avevo deciso che non avrei più parlato.
Avranno pensato che fossi permalosa o che forse avevo bisogno di uno psicologo; mai una volta che abbiano intuito che erano solo loro a essere stronzi.
Ad ogni modo non era durata a lungo la mia ribellione da ragazzina testarda, perché quando 'loro' decidevano che non si scherzava più, allora si passava alle minacce di veder volare ceffoni e altri oggetti più o meno contundenti.
Crescere in una famiglia squilibrata – di quelle in cui le questioni serie si affrontano urlando e uscendo sbattendo la porta, per poi stare giorni senza parlarsi – non mi ha aiutato a essere una persona propensa al dialogo.
Decido di tacere e continuo per la mia strada.
Cammino come un automa, sto andando in ufficio come ogni giorno ma attenta a cogliere ogni dettaglio circostante. Penso di star sognando, mi capita spesso durante i sogni di intuire che ciò che sto vedendo non corrisponde al ricordo del contesto che ho memorizzato negli anni: spesso ci sono palazzi che non dovrebbero esserci, architetture fuori luogo e, a volte, tecnicamente improbabili.
È allora che la mente supera la soglia della consapevolezza e capisco di essere padrona di un mondo che può piegarsi al mio volere. Appena accade, la mia prima istintiva reazione è volermi gettare da una finestra. Non so perché il desiderio di volare e l'irrequietezza di poterlo attuare nell'immediato, siano così forti in me. Mi ripeto spesso che da vecchia mi rimbambirò e mi getterò da una balcone convinta che io stia sognando. Ne sono certa.
Anche nei sogni, però, quel poco di raziocinio – o di ostinato attaccamento alla realtà – mi spinge a esitare. Allora appoggio una mano su un muro: se lo oltrepassa ho la prova concreta essere in un sogno. Non so come il mio cervello abbia elaborato questa sorta di controprova alla 'Inception', ma è l'unica che davvero riesce a confutare ogni mio dubbio.
Arrivo nei pressi dell'agglomerato di palazzi di cui fa parte anche il mio ufficio; mi sento quasi stupida mentre mi fermo vicino un muro e poggio la mano su una delle grosse pietre bianche di cui è composto. Sento il contatto freddo con la sua superficie sfaccettata, ma la mano non affonda. Non sto sognando. Forse. Tutto è troppo reale, tranne che non c'è più niente che si muova intorno a me.
Riprendo la mia via. Credo che per ora non mi butterò.
In preda a ragionamenti sconnessi raggiungo la porta del luogo di lavoro, un ufficio al piano terra caratterizzato da ampie vetrate che gli conferiscono l'aspetto di un moderno open space. Intravedo dentro un mio collega, anche lui è immobile, sospeso nella sua azione, sta guardando proprio nella mia direzione, con gli occhi leggermente sorpresi, credo abbia sentito la frenata e si sia voltato istintivamente verso la fonte del rumore, prima che tutto si fermasse.
Guardo da dietro il vetro della porta le sue iridi, di un azzurro talmente intenso da trapassarti da parte a parte. Questo ragazzo è una delle poche persone che ho cercato di comprendere. Siamo molto simili noi due, anche se ci divide una differenza sostanziale: in lui c'è l'ostinata volontà di raggiungere un obiettivo che si è prefissato; cosa che io ho perso da molto tempo. Lo osservo con attenzione, avvantaggiata da questa favorevole situazione di stasi che mi permette di riflettere meglio sulla condizione di alcune persone.
Ci sono individui a cui le cose sono state donate e altri che, quelle stesse cose, hanno dovuto guadagnarsele con sacrificio e perseveranza. Lui fa parte di queste ultime e nei suoi occhi si legge l'insofferenza scaturita da questa realtà: la consapevolezza che altre persone hanno raggiunto i tuoi stessi traguardi senza aver mosso un dito, mentre tu hai sputato sangue per arrivare al loro stesso punto. È allora che la tua determinazione si trasforma in rabbia, che gli obiettivi trasmutano da ricerca di soddisfazione del sé, a volontà di prevaricare su coloro che ti hanno preceduto imboccando la via più comoda.
Spingo la porta per cercare di entrare, vorrei osservare meglio, illudendomi di poter cogliere dell'altro in quello sguardo, ma la porta non si apre. Provo con più enfasi ma non ne vuole saperne di muoversi. "Che sia inchiavata?" È un pensiero che mi balena in testa ma subito scompare nell'attimo in cui rinuncio a dare una spiegazione razionale al tutto. Lascio scivolare la mano sulla maniglia dell'entrata e retrocedo di un passo.
"Forse sono morta?" Affronto la questione che cercavo di evitare da un po'.
Mi viene quasi da ridere: mi sembra di essere in uno di quei film dalla trama scontata, ma non riesco a elaborare un'ipotesi migliore.
"Forse sono morta" ripeto a me stessa mentre mi allontano per qualche luogo non ben precisato.
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Il secondo prima di morire
Short Story| Storia breve | Introspettivo | Paranormale | -Non c'è vita dopo la morte, ma c'è vita il secondo prima di morire.- J.M. è invischiata in una vita ordinaria e da tempo spoglia di speranze e aspettative. Sospesa in una bolla di illazioni sulla puer...