Il mio secondo prima di morire

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Sono arrivata a destinazione. Tutta questa strada per finalmente poter dire a mio padre che è stato un pessimo genitore.

Dopo essersene andato di casa con la sua nuova donna, si è trasferito in una villetta di campagna; si è sempre preoccupato di farmi avere il sostentamento necessario per finire gli studi e, quindi, non venire meno ai suoi doveri di patriarca, ma non è stato questo che è mancato.

Ciò di cui si è sentita la carenza è stata la sua presenza. A lui non piaceva il suo lavoro, ne era innamorato. Fare, costruire, montare, ingegnarsi: erano queste le cose che lo facevano sentire vivo, felice ed era chiaro che se tornava tardi – o non tornava affatto – per portare a termine i suoi impegni, lo faceva perché la sua dimensione, dove stava davvero bene, non era a casa con la sua famiglia. Persino ora, che il fisico arranca e il fiato gli si accorcia in tempi brevi, lui non fa altro che darsi da fare in qualcosa. Spirito d'artista, direbbero in molti. Io dico che è solo una continua ricerca di conferme dell'ego.

Fare per essere, costruire per lasciare una traccia di sé. Ma di cosa si lascia davvero traccia così facendo? Rimangono solo oggetti, opere d'ingegno, cose materiali, ma di quello che si è stati, il ricordo svanisce.

È questo il problema della gente: lega i ricordi alle cose, mentre questi dovrebbero saldarsi alle sensazioni scaturite dall'attimo. Gli oggetti si rompono, si perdono, passano di mano in mano perdendo l'iniziale valore affettivo. Le sensazioni, invece, rimangono con te, sono parte di te.

Finalmente mi addentro nella proprietà scavalcando un cancello basso e lo trovo fuori, intento come sempre a fare qualcosa. Immobile nella sua stasi, sta armeggiando con un qualche attrezzo agricolo, probabilmente deve usarlo, oppure aggiustarlo. Tanto sa fare qualsiasi cosa, inutile tentare di indovinare.

La fronte corrucciata: forse gli stava facendo male il ginocchio in quel momento, forse stava solo maledicendo l'aggeggio come era solito fare con qualunque cosa che non funzionasse come voleva lui. Sempre arrogante.

Mi domando come io sia diventata così remissiva, invece; con un padre del genere dovrei essere una che urla in continuazione in faccia alla gente, o per lo meno che non si fa mettere i piedi in testa anche da un bambino.

Questa cosa mi intristisce. Tutta questa strada per sputare in faccia il mio disprezzo a una persona immobile, che probabilmente non può sentirmi.

Lo guardo e so già che piangerà alla notizia.

Che stupido: piangere per una persona che in realtà ti detesta, che vorrebbe dirtelo che le hai rovinato la vita, ma non l'ha mai fatto e non lo farà nemmeno stavolta. Troppo vigliacca. Troppo soggiogata.

In fondo lo so già, so già che ti salverai buttandoti sulle tue cose da fare. Il dolore passerà, è solo una sensazione. In fondo ci siamo separati già da molto, troppo tempo ed è inutile dirsi addio.

Penso: tutte cose che penso e non dico. Sprecare il fiato è inutile come sempre; eppure sento le lacrime salire agli occhi, sgorgano e scivolano sul volto ma non cadono a terra. Rimangono lì, sono parte dello scorrere del mio tempo e non possono interagire con il suo.

Proprio come io e lui.

Forse questo viaggio l'ho fatto solo per me stessa, le cose sono andate così perché non ho mai fatto nulla per cambiarle e non posso biasimare nessuno. Abbandono l'arena. Partita persa a tavolino, non ho nemmeno provato a giocare, come sempre.

Sulla strada del ritorno incrocio di nuovo la coppia nella macchina, sono seduti fianco a fianco e parlano, come se stessero guardando la TV sul divano di casa; non posso fare a meno di notare che la distanza fra le due macchine si è, anche se di poco, ridotta. Le cose intorno, quindi, si stanno muovendo, anche se molto lentamente.

Mi salutano con un cenno della mano. Non si può dire che siano contenti, ma hanno l'espressione di chi sta dicendo tutto quello che c'è da dire. Forse stanno raccontando i momenti passati insieme, le gioie, le esperienze, nella speranza di poterle trasmettere a coloro che lasceranno; mentre io sono diretta al posto a me destinato: ormai non credo ci sia altro da fare per me.

Dopo una lunga camminata, arrivo alla strada su cui stavo attraversando e scorgo da lontano la smisurata macchina che stava per venirmi addosso. Mi affianco a essa prima di raggiungere il tratto di strada zebrato e scorgo da dietro il finestrino la donna, ancora fissa nella sua espressione di sgomento. Noto che in una mano sta reggendo un cellulare.

Era alla guida e intanto chattava.

Chissà quanto importante doveva essere quel messaggio per catturare tutta la sua attenzione: la mia vita vale meno di quel testo.

Sbatto con violenza i pugni sul finestrino ottenendo un forte rumore secco. Spero che almeno questo tu lo senta, maledetta: sto per morire perché tu non potevi fare a meno di scrivere un messaggio invece di guardare dove stavi mettendo le ruote del tuo cazzo di Suv.

La gente è impazzita: succube dei social, tutti a mandare vocali, leggere e inviare messaggini come drogati in crisi di astinenza. Incoscienti, egoisti, egocentrici. Esistete solo voi e il vostro desiderio di feedback istantaneo.

Mi stacco da quella macchina e mi posiziono sulle strisce.

Potrei non farlo, potrei continuare a camminare in giro per il mondo: magari ci sono altre persone come me che non sono intrappolate da un fato crudele. Potrei far durare il mio 'secondo prima di morire' un'eternità, vedere tutti i posti che non ho mai visto, accarezzare tutti i gatti che incontrerei, spiegare a quelli nella mia stessa condizione come funziona il meccanismo e, magari, apprendere teorie nuove a mia volta o realizzare che, in questa sorta di mondo parallelo, io potrei comunque iniziare una nuova vita. Ma...

Ma la verità è

che ho più paura di vivere che di morire.


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Grazie per aver letto il mio racconto, spero vi sia piaciuto nonostante la brevità.

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