Supersonic man out of you

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Cammino senza meta; non sono abbastanza lucida per elaborare una qualche teoria brillante che mi permetta di capirci qualcosa da questa situazione. Ripenso a quel film dove uno dei personaggi corre talmente veloce da sembrargli che tutto il resto vada a rallentatore: forse mi sta succedendo questo, ma qui sembra proprio tutto immobile e non sento l'attrito dell'aria addosso come dovrebbe di logica succedere.

Non riesco ad addentrarmi in ragionamenti più complessi perché di fisica non ci ho mai capito un granché. Afferro il cellulare dalla borsa in un gesto pressoché istintivo. Premo il pulsante per attivarlo ma la schermata sfarfalla in modo scomposto, come se ci fosse un campo magnetico a disturbarla. Provo a passare il dito sullo schermo sperando possa sortire qualche effetto ma nulla: un ulteriore rompicapo a cui non so dare spiegazione.

Di lì a poco raggiungo una persona, una ragazza che forse stava andando a scuola: zaino in spalla, auricolari alle orecchie e telefono in mano. Anch'essa ferma in un istante nel tempo.
Mi avvicino, sbircio sul suo cellulare e noto che è attivo, al contrario del mio: la schermata mostra la traccia audio che stava ascoltando, ma anch'essa è immobile, priva di moto. Passo fugacemente un dito sullo schermo ma non riesco a interagirvi; avvicino quindi un orecchio a quello della ragazza, non so perché ma sto attenta a non toccarla, come se si trattasse di una statua da non far cadere dal piedistallo; non sento musica provenire dall'apparecchio. Mi ritraggo e l'osservo meditabonda: non riesco proprio a decodificare questo mistero.

Dopo un tempo che paradossalmente mi sembra troppo lungo, mi decido a prendere con due dita il filo del suo auricolare ma questo non si muove, sembra incollato all'orecchio e anche il cavo non si sposta di un millimetro. Ne deduco che sia proprio ciò che sembra: il mondo intorno a me è immobilizzato e io non sono in grado di interagire con esso. Mi investono un sacco di domande ovvie ma preoccupanti: quanto durerà tutto questo? Come farò a mangiare e bere? Sono vittima o graziata?

Mi allontano con passo veloce, decisa a cercare delle risposte, ma non ho idea di dove andare, chi poter cercare, non posso parlare con nessuno, chiedere aiuto, consultare un qualsiasi libro o internet e, per la prima volta, il silenzio che ha sempre caratterizzato la mia vita, ora mi spaventa.

Forse sarebbe questo il momento giusto per gridare ma ancora non ci riesco, non riesco a spezzarlo con la mia voce: la consideravo inutile quando la gente poteva udirla, figurarsi ora che non può giungere a nessuno.

Penso. Cammino e penso. Ormai dovrei esserci abituata: lo faccio praticamente ogni giorno; eppure in questo momento mi manca quella sorta di certezza che vagabondava latitante nei bassifondi della mia coscienza: il saper di avere un punto di arrivo.

Nella mia vita c'erano solo due punti fermi: la consapevolezza di andare sul luogo di lavoro la mattina e quella di tornare in una casa la sera. Non c'era nient'altro, tutto quello che era di contorno si era già dissolto da tempo: famiglia, affetti, amori, amicizie; tutto cancellato per scherzi anomali della vita e per mia volontà. La solitudine non spaventa quando è una scelta, se è un'imposizione, invece, atterrisce.
Fossi una persona dai normali trascorsi, adesso starei correndo da coloro a cui tengo per vedere se stanno bene, se sono imprigionati in questo tempo immobile; invece resto qui a farmi domande inutili, a rigirare su pensieri triti e ritriti, come sempre.

Riprendo a camminare guardando le mie scarpe e contando i passi: non sembra cambiato molto da quello che faccio di solito, eppure, se prima l'indifferenza del mondo nei miei confronti era solo una sensazione, adesso è tangibile.

Ho sempre sperato di dissolvermi dalle menti di coloro che hanno incrociato il mio cammino, come un'ombra che passa fra la gente senza fare rumore e, ora, è proprio quello che sono: un'anima che attraversa le vite immobili degli altri in un singolo istante. Chissà se è una sorta di strana lezione morale che qualche entità vuole infliggermi per farmi capire quanto stia prendendo tutto per il verso sbagliato.

Arrivo a cento e ricomincio da uno.

Ripenso alle mie scelte, alle vite degli altri, e non riesco a capire chi di noi stia sbagliando: è meglio vivere una vita al di fuori dello schema prestabilito o uniformarsi, omologarsi a esso pur di non sentirsi costantemente fuori luogo? Spesso si pensa che sia normale seguire dei passi prestabiliti: studiare, trovare lavoro e il partner per la vita; per poi sposarsi in previsione di ottenere una casa, si fanno figli e si lotta per tenere in piedi tutta la baracca senza perderne i pezzi – o perderne il meno possibile – fino alla morte.

La gente mente spesso a se stessa. Ho conosciuto persone recluse in relazioni infelici che non interrompono per paura di rimanere sole, che si ripetono che in fondo c'è dell'affetto o che pensano di non meritare di meglio.

Ci sono tanti tipi di ragionamenti che ingabbiano, eppure basterebbe pensare che in quel tempo speso con una persona che non fa per te, un'altra che sarebbe perfetta non ha la chance di dimostrartelo. In altre parole, la gente si preclude la possibilità di essere felice solo per paura di lasciare quel poco che ha conquistato.

Spesso si aggrappano a una storia non soddisfacente per poi trovare scappatoie semplicistiche: tradire, dissimulare, cercare altrove un'alternativa stando bene attenti a non mollare la presa su ciò che si è già conquistato. Troppo di frequente si considerano le relazioni come una cosa da possedere, che da vivere.

Mi faccio pena da sola. Sto qui a giudicare le scelte degli altri quando sono io la prima a definirmi infelice; inoltre sono ricaduta in uno dei miei soliti ragionamenti in cui mi crogiolo senza trovare una vera risposta al tutto.

Passo per una strada che fiancheggia il corso principale dove incrocio una coppia a passeggio. Nascondo la parte inferiore del viso nel bavero del cappotto: è una cosa che faccio spesso quando vedo delle persone per strada, se non fosse che mi rendo conto della stupidità del mio gesto visto che non posso interagire con loro e loro non possono – suppongo – vedermi.

Il secondo prima di morireDove le storie prendono vita. Scoprilo ora