L'amore è una concezione

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C'è stato un periodo, non molto lontano nella mia vita, in cui ho creduto di saper amare. Un giorno a caso, dopo anni trascorsi in un cosciente stato di isolamento emotivo, mi sono detta 'basta'.

Non è facile da spiegare, è come quando sei sott'acqua da troppo tempo e capisci che devi uscire da quell'abbraccio confortevole fatto di rumori ovattati, perché non puoi più trattenere il respiro.

Risalire è facile: basta dare un colpetto sul fondo con la punta del piede e si innesca la spinta verso l'alto.

Il difficile è decidersi a farlo. Il resto succede da sé.

Il corpo si innalza in modo autonomo e ti ritrovi a infrangere la superficie, a irrompere in quel mondo fatto di aria e frastuoni che non ha mai smesso di continuare a girare anche senza di te.

Non è stato un amore convenzionale; per un individuo dalla personalità forgiata nel rammarico come me, è impensabile.

Sono quasi due anni che ho un nuovo lavoro. Colleghi gentili, affabili; forse pensano addirittura che io sia una persona simpatica. Due anni che lavoriamo insieme e con nessuno di loro ho instaurato un rapporto al di fuori dell'ufficio. Nell'ambiente lavorativo sembra quasi di respirare un clima di amicizia ma, fuori da lì, ognuno va per la propria strada: non conosciamo niente l'uno dell'altro, se non le reciproche capacità professionali.

In quel periodo nella mia vita, quando avevo deciso di dire basta a questo senso di apatia che mi porto dietro da quando mi hanno strappato il sorriso, ho preso due gatti.

Non credo di essere stata una gran tutrice, ma quel poco che ho fatto ho cercato di farlo al meglio, fra dubbi, errori egoistici e rimorsi dati da chi mi accusava che tenere due bestie chiuse in casa fosse una crudeltà contro natura; che era meglio che morissero prematuramente ma liberi, piuttosto che farli vivere una 'vita-non vita' segregati nelle quattro mura di un appartamento.

A quelle persone, ora, auguro solo di provare lo stesso dolore che provo io adesso.

Il primo micio se n'è andato all'età di quattordici anni. Non troppo presto, ma avrei preferito – come immagino chiunque altro – averlo per qualche anno in più. Colpito da una malattia fulminante a cui nessuna cura ha saputo dare rimedio, l'ho visto indebolirsi giorno dopo giorno, fino al coma, fino a che non si è spento. Ho pensato che l'idea di averne presi due non era stata così male, a suo tempo: mi sarei curata della micia rimasta, avrei alleviato quel dolore dell'aver perso l'unica compagnia che aveva avuto in tutti quegli anni di vita, ma il destino o non so chi per lui, aveva deciso al posto mio.

Ventotto giorni dopo è morta anche lei, una malattia così fulminante che nemmeno l'esperto è riuscito a capirne l'origine.

Se ne sono andati entrambi di sabato, quasi a volermi dare il tempo per metabolizzare, seppellirli e riprendermi la domenica successiva, in modo che gli effetti della loro scomparsa non venissero notati dai colleghi di lavoro.

Entrambi spenti fra le mie braccia.

In quei momenti la paura sale: paura di svegliarti la mattina e scoprire che sono morti nella solitudine. Non volevo che accadesse, ho aspettato insieme a loro, li ho implorati di andare, di non dilungare quello strazio.

Nel momento in cui la vita si spezza, la senti scivolare via fra le dita, mentre l'angoscia lascia posto ai rimorsi di quello che non sei stata in grado di fare per trattenerla a te.

Primo Maggio: dopo aver sepolto il secondo, ho deciso che la mia vita si sarebbe fermata lì, insieme alla loro.

Ho sentito dire da qualche parte che il lutto si compone di diverse fasi: all'inizio c'è la negazione, poi la rabbia, la negoziazione e infine l'accettazione. Non ho mai approfondito l'argomento, perché come al mio solito ho un approccio tutto mio nell'affrontare le situazioni.

Non so perché ma la mia prima fase è sempre l'accettazione. Lo accetto, so che è normale, che è naturale, che è una cosa che accade e non dovrei piangere per ciò che ho perso, ma essere felice di averlo avuto, anche se per poco. Inverosimilmente, quando un lutto mi travolge riesco a mantenere una lucidità quasi sconcertante.

È ciò che viene dopo che mi logora, in una congestione di sentimenti contrastanti che si mischiano nelle viscere e mi portano a un'unica grande negazione.

Non cercherò qualcun altro da amare: l'idea di dover provare di nuovo un dolore così lacerante mi fa preferire rinunciare. Che poi che amore sarebbe? Sarei talmente soggiogata dal terrore di una nuova perdita da lesinare l'affetto: fingerei solo e questo sarebbe ingiusto.

Ho preferito smettere di perseguire un obiettivo, una meta, così vago come un fantasma fra la gente ed evito di approfondire le conoscenze. La totale rinuncia ad avere un'aspettativa per il futuro equivale a non vivere, ma almeno non si soffre per quelle cose che tutti pensano diano ragione di esistere: un lavoro, una casa, un'automobile, molti soldi, un matrimonio e altre cose più o meno banali.

Ho smesso di preoccuparmi per il futuro tempo addietro, conscia che l'unica mia certezza è che tanto, prima o poi, me ne andrò.

Il secondo prima di morireDove le storie prendono vita. Scoprilo ora