01. A e Ω

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Era sempre stato un fautore del duro lavoro. E ci erano voluti quattro anni di intensi sforzi per arrivare dov'era in quel momento, con un ufficio tutto suo e tre persone che poteva considerare come sottoposti. Era il socio più giovane nello studio, forse in assoluto da quando era stato creato. Una bella soddisfazione, che però, per Eren non era abbastanza.

E mentre scorreva una pila di fogli, applicando su ciascuno piccole correzioni, pensava a come sarebbe stata la propria quotidianità se solo tutti quei colletti bianchi, le cui giornate ruotavano attorno ad alcolici pregiati e cravatte inamidate, avessero saputo la verità sul ragazzo che quasi ogni sera portavano a bere insieme a loro. Con cui si vantavano delle proprie avventure passionali, trionfi e caduti di quel lavoro che diventava la loro vita e sbiadiva tutto il resto. Quante bugie aveva dovuto inventare, per stare al loro passo. In quei quattro anni un'abbondante ventina di – mai esistite – ragazze Beta avevano animato i suoi racconti, sempre diverse, incontrate una volta e poi mai più, tutte con nomi esotici e abilità considerevoli sotto le lenzuola.

Eren non aveva mai avuto una donna in tutta la sua vita.

E neanche toccato una sola goccia degli infiniti bicchieri che i colleghi facevano girare, in quelle serate. Non poteva permettersi di bere in pubblico, non poteva permettersi di lasciarsi andare all'abbraccio ammaliatore dell'alcol. La sua guardia doveva sempre restare alta, attenta a ciò che diceva o faceva, attento a non tradirsi; troppi drink avrebbero potuto alleviare gli effetti dei soppressori e modificatori di odore che prendeva regolarmente. Avrebbe rischiato troppo, e nessuno doveva sapere. Non ancora. Un giorno, si sarebbe seduto sulla poltrona all'ultimo piano, il suo nome sarebbe stato sulla targa dorata all'ingresso del palazzo. Quel posto sarebbe stato suo. E allora, forse, se l'avesse voluto, avrebbe permesso a quel branco di sfigati di respirare l'odore dell'Omega che ora stringeva le loro carriere nel palmo della mano.

Alle nove e mezza di sera, Eren buttò i contenitori del cibo cinese d'asporto nel bidone dei rifiuti. Il suo modo di nutrirsi non era per niente adatto né alla sua età, né ad uno stile di vita sano, ma non poteva certo stare a prepararsi pasti con calorie contate quando non sapeva neanche se sarebbe rincasato. Il suo frigo era sempre vuoto per evitare di ritrovare cose scadute, per dimenticanza. E poi, che senso avrebbe avuto la professione di fattorino per le consegne a domicilio, se nessuno l'avesse sfruttata?

Tornò a sedersi alla scrivania, ed il suo sguardo cadde sulla lucente penna stilografica che gli era stata regalata da sua madre, la persona più importante della sua vita, quando si era laureato in giurisprudenza. Il colore verde e dorato delle decorazioni, gli aveva detto, l'aveva fatta pensare a lui. Eren conservava quel dono sulla scrivania, senza mai usarlo sul serio, per timore di rovinarla: un tesoro inestimabile che avrebbe meritato un posto in una teca da esposizione, se non avesse avuto il bisogno di tenerla vicina a sé mentre si trovava a lavoro, in un luogo che non riusciva a non considerare come territorio nemico.

Il piano su cui si trovava il suo ufficio era un enorme open space circolare, delimitato da uffici a vetrate. Le tendine assicuravano la privacy a chiunque le abbassasse ed ogni stanza erano dotata di un sistema di isolamento, per impedire che gli odori delle varie dinamiche si sovrapponessero troppo, durante il giorno, e disturbassero clienti ed impiegati. C'erano Alpha, Beta a lavoro, Omega che raggiungevano e lasciavano i vari piani in continuazione, dopo aver svolto i piccoli e più semplici compiti che erano loro assegnati ed era meglio mantenere al minimo ogni potenziale rischio di incidente sgradito.

Eren fece scorrere pigramente lo sguardo tutto intorno. Le scrivanie al centro del piano erano riservate ai segretari ed ai tirocinanti, senza pareti e con stampanti comuni e dal proprio ufficio Eren aveva completa visuale su ognuna di quelle piccole api operaie, alcune delle quali erano state assegnate proprio a lui. In quel momento, tuttavia, l'alveare era vuoto e silenzioso. Buio, mentre solo gli inservienti scivolavano silenziosi come ombre per pulire quel pavimento già perfettamente lucido. Avrebbe potuto pensare di essere l'unico rimasto a lasciarsi sommergere dagli straordinari, eppure quella che fuoriusciva dalla sua porta non era l'unica luce sul piano. Nonostante l'orario, anche dalle vetrate di un altro ufficio si diffondeva il caldo colore delle lampadine rilassanti che l'ufficio aveva messo come dotazione obbligatoria. Le sue tendine erano costantemente abbassate, isolando l'inquilino dal mondo ancor più di quanto il suo pessimo carattere già non facesse.

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