칠; VII

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Nel pomeriggio io e Jordie ci trovammo da soli. Daniele e Olive erano andati a prenotare la sala e ci avevano incaricati di distribuire gli inviti ai parenti e agli amici.
Camminavamo in silenzio. Lui era tutto chino e si fissava le scarpe lucide muoversi allo stesso ritmo e velocità. Io mi tenevo a tre passi di distanza e gli fissavo la schiena ed il retro della nuca, sognando di passargli una mano tra le ciocche scure dei capelli.
Dopo Matt avevo frequentato solo altri due ragazzi, a parte qualche storia da poco nel mezzo. Uno si chiamava Bred e l'altro Attila.
Il primo suonava il pianoforte ed amava studiare. Il secondo era sempre silenzioso, aveva gli occhi grigi ed era un appassionato tifoso del Liverpool.
Dopo essermi accorta dei miei veri sentimenti per Jordie avevo cercato solamente ragazzi che condividessero con lui qualche cosa, piccola o grande che fosse. Non mi ero più innamorata di nessun altro come avevo fatto con Matt.
In piena disperazione a ventidue anni, temendo di morire sola e infelice, avevo persino ricominciato a frequentare quest'ultimo, Matt, che all'epoca si era scoperto comunista come i suoi nonni.
«Vedi, Lia» mi aveva detto, «Il fatto è che ho capito che il mondo in cui viviamo fa schifo. Ci fanno credere di aver raggiunto l'emancipazione e l'uguaglianza per tenerci a bada, come dei cani in gabbia a cui ogni tanto si lancia un osso. Ma io, Lia, voglio tutta la carcassa adesso».
La cosa mi era parsa molto attraente e aveva riacceso in me vecchie emozioni che avevo provato in sua vicinanza. Era un uomo di pancia e di passione, che avrebbe scalato una montagna per i propri obiettivi.
Ben presto però la pancia rincominciò a superare la testa e mi ritrovai a lasciarlo una seconda volta gridando e sbraitando.
Certe persone sono semplicemente troppo simili per poter stare insieme.
Pensai a Jordie e quanto fosse effettivamente diverso da me. Era un ragazzo paziente, ponderato, silenzioso, ragionevole e responsabile. Non lasciava mai la pancia decidere per la testa e le parole uscire dal cuore più che dal cervello.
Forse era proprio questa sua diversità a tenermi tre passi costantemente lontana, quasi mi terrorizzasse.
Eppure, nonostante gli anni che non lo vedevo, allontanarmi di quattro passi mi faceva ancora più paura.
Bussammo a venti porte e distribuimmo cinquanta inviti, trovando chi qua, chi là, chi a casa di chi e chi  a casa nostra.
Daniele ed Olive non avevano ancora finito e i miei nonni non erano tornati dalle faccende quotidiane, e ci eravamo ritrovati da soli in casa.
«Lo vuoi un tè?»
«Okay».
Controllai tra le dispense, «Non c'è. Lo vuoi un infuso alla fragola?»
«Sì».
Presi un pentolino e lo posi su un fornello mentre Jordie mi osservava dietro al tavolino rettangolare attaccato alla parete.
«So che hai tenuto il mio libro» dissi. «Me lo ha detto Olive».
Jordie annuì. «È un regalo».
L'acqua iniziò a bollire e la versai in due grosse tazze bianche.
«A casa vivi da sola?»
«No, condivido l'appartamento».
«Daniele mi ha detto che vorresti fare la scrittrice».
Annuii e girai lo zucchero nelle tazze.
«Stai scrivendo qualcosa?»
Di solito a questa domanda rispondevo che non avevo tempo con il lavoro e le faccende di casa, ma era una bugia e chissà per quale ragione decisi di non volergli mentire. «Un romanzo. L'ho quasi finito».
«Posso leggerlo?»
I suoi occhi grigi erano illuminati da un esile raggio del sole morente, macchiati di un giallo caldo che lo faceva somigliare a un gatto. Gli passai la bevanda calda dopo aver buttato nel secchiello dell'umido le due bustine ed essermi accomodata di fronte a lui.
«Quando sarà terminato, ma potresti dover aspettare un anno».
«Perché?»
«Non ho tempo».
«Sì, invece» questo suo modo di contestare un dato di fatto con tanta naturalezza aveva ancora la capacità di lasciarmi atterrita.
Un giorno, non ricordo con esattezza quando, avevo ascoltato una sua conversazione con Daniele dal salotto. Mio fratello gli aveva detto di non avere il coraggio di chiedere a Sam di uscire. «Non è vero, hai tutto il coraggio del mondo per farlo» gli aveva risposto, senza una nota emotiva della voce, proprio come se stesse parlando del tempo.
«Io lavoro, sai» borbottai.
«Non tutto il giorno. Torni alle sei».
«E quando potrei finirlo secondo te, sentiamo?»
«Un mese» azzardò. «Forse meno».
Lo fissai qualche secondo, incredula della sua sicurezza. Non mi stava sfidando, ci credeva davvero.
«Allora tra un mese verrai a casa mia e leggerai il mio libro».
Jordie annuì. «E tu mi accompagnerai al mio primo concerto».
Un sorso di tè mi si bloccò in gola, «Come?»
«Suonerò al ricevimento d'arte del signor Levonskij al Dream Palace, tra due mesi» disse, «Vorrei mi accompagnassi».
Avevo scoperto che Jordie suonava il pianoforte quando ancora a sei anni uscivamo tutti e tre insieme.
Daniele era voluto andare in chiesa perché era un giorno di festa per il paese e sperava avessero organizzato una vendita di dolci e lo zucchero filato. Mentre mio fratello cercava nei meandri delle camere dell'edificio, Jordie era salito al piano superiore, dove c'era l'organo e per la chiesa si era diffusa una melodia profonda e malinconica che mi aveva fatto scoppiare a piangere. Io ero seduta sulla prima panca di fronte alla croce del cristo morto e Jordie, alle mie spalle, si era sporto cercandomi con lo sguardo, interrompendo la musica, probabilmente preoccupato che mi fosse successo qualcosa di grave. «Tutto bene»  avevo risposto, senza girarmi, con le spalle che ancora tremavano, «Va tutto bene».
A quel ricordo sorrisi e avvampai, nascondendomi dietro qualche ciocca di capelli. «Tu leggerai il mio libro e io verrò con te allora, siamo d'accordo».

Tre Passi DistantiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora