14. De Rerum Vetitae

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Abby

I giorni che si susseguono sono un alternarsi di monotonia, emicranie da far venire il voltastomaco e pillole. Non necessariamente in quest'ordine.

Ogni mattina apro gli occhi di scatto, come se mi destassi all'improvviso da un brutto sogno e mi guardo attorno spaesata: per un attimo mi sento persa, come se non mi ricordassi chi sono e cosa faccio qui, ma poi iniziano a tornarmi in mente dei flash ed è lì che scoppiano le emicranie. A volte sono così violente da farmi stringere la testa con le mani, come a voler contenere il dolore all'interno della scatola cranica. Spesso le fitte mi annebbiano i pensieri e ogni tentativo di resistenza, fino a che non cedo e decido di chiedere aiuto a Russell, che sembra essere diventato all'improvviso il mio infermiere personale. Lui mi somministra con leggerezza antidolorifici ad alto dosaggio, con la scusa che mi faranno sopportare meglio questa fase di transizione. Secondo me, i suoi antidolorifici in realtà sono a base di sostanze stupefacenti od oppiacee, perché nel giro di qualche minuto i cerchi alla testa si allentano e la mente si rilassa per quel minimo di ore necessarie a farmi riprendere il respiro e chiudere gli occhi, riposando senza fare incubi.

Anche oggi, la giornata sembra iniziare allo stesso modo di tutte le altre. Alle nove in punto sollevo le palpebre con pesantezza e mi spingo gli indici sulla fronte, aggrottando le sopracciglia in una smorfia tirata: il mal di testa mi sta già distruggendo.

Mi alzo in piedi e barcollo verso il piccolo bagno della stanza, sporco e poco illuminato. Accendo la luce e mi sciacquo il volto con un po' d'acqua gelida, passandola più volte sopra alle tempie bollenti. Per un attimo incrocio il mio riflesso nello specchio ovale appeso sopra al lavandino e quasi sobbalzo, come se avessi appena incontrato gli occhi e la faccia di una sconosciuta: il mio viso sta dimagrendo a vista d'occhio e l'incarnato della mia pelle si sta a mano a mano ingrigendo, così come anche i miei capelli, ormai spenti e mossi in modo disordinato. Ma di tutto il quadro generale, a lasciarmi veramente sconvolta è l'espressione del volto: non riesco a leggerci più nemmeno un'emozione.

Sono diventata una pagina bianca, del tutto svuotata e completamente assente a me stessa.

Mi rendo conto anche io di sentirmi quasi ospite del mio corpo, come se fossi un parassita che si sta approfittando di un ambiente estraneo per sopravvivere. Le fitte lancinanti alla testa annullano ogni molecola da cui sono composta, sviscerando le mie sensazioni fino a ridurle in gusci vuoti, disabitati. Le stesse pillole che prendo, da una parte mi aiutano a non sentire il dolore sino in fondo, ma dall'altra mi annichiliscono ancora di più, trasformandomi in un'ameba dalle risposte robotiche e concise.

Russell bussa anche oggi alla mia porta e mi chiede come sto, prima di entrare nella stanza e sorridermi con lo stesso, enigmatico ghigno. «Ti trovo bene, stamattina. Ti sei persino alzata da sola», mi dice, studiandomi da capo a piedi.

«Mi stava scoppiando la testa. Come sempre.» Mi passo di nuovo le dita sulle tempie e mi trascino verso il comodino accanto al letto, dove sono sparse alla rinfusa una serie di pillole trasparenti e tondeggianti. Vicino, un po' di cibo avanzato della cena della sera prima e un bicchiere d'acqua.

«Potevi prendere un antidolorifico. Sai che puoi farlo.»

«Quella roba mi toglie tutte le forze, Russell. Anche i pensieri che mi ronzano in testa.»

«E tu preferisci continuare a esserne turbata, invece?», mi domanda con un sorriso scontato.

Rimango perplessa, come se non avessi capito bene la sua domanda. Sbatto le palpebre e cerco di capire perché abbia formulato una frase così tanto priva di senso. È ovvio che non mi faccia piacere essere tormentata dagli incubi notturni, dalle stanze buie occupate da persone che non ho voglia di vedere e dai pensieri confusi, dati da ricordi ancora più offuscati. È così ovvio che preferisca il nulla - il vuoto mentale - a tutto ciò. È così ovvio, ma allora perché ho lasciato uscire dalla mia bocca queste parole veloci? Raggiungo il comodino e afferro una pillola trasparente. La stringo tra le dita e la osservo, come se nascondesse all'interno tutte le risposte che cerco. Poi sospiro e la metto in bocca, mandandola giù senza nemmeno bere un sorso d'acqua. «Hai ragione. Non ha senso star male.»

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