Entrò in casa, posò il cappotto sul divano e si diresse in cucina.
Sua madre stava apparecchiando la tavola.
<<Bentornata, è andata bene la giornata?>> le chiese.
Timothy fece una smorfia per lasciarle intendere che non era andata bene.
La signora Patrizia adorava quel nome e non si era rassegnata neanche di fronte alla decisione di madre natura di donarle una figlia femmina, era quello il nome che aveva scelto ed era quello il nome che avrebbe dato a sua figlia.
"Ha un suono dolce" aveva pensato "le piacerà".
Il suo nome Timothy lo detestava, era stato il suo tormento sin da bambina.
In prima elementare un suo compagno di classe aveva preparato in suo onore una filastrocca.
<<Sembra una femmina, ma femmina non è, indovina che cos'è? Timothy.>>
Esasperata da quella cantilena, un giorno salì in piedi sul banco e si tirò giù in un colpo solo i pantaloni della tuta e le mutandine, per dimostrare a tutti i compagni che era una femminuccia.
Durante le vacanze estive aveva visto la zia, cambiare il costume al cuginetto e aveva scoperto che una differenza tra bambini e bambine c'era.
La maestra sconvolta dall'accaduto aveva convocato con la massima urgenza sua madre.
Uscita dalla stanza della dirigente scolastica, la signora Patrizia le aveva tirato un ceffone.
<<Ma dico sei impazzita Timothy? Vuoi che ti mandi in collegio a imparare un po' di educazione?>>
Timothy si era portata entrambe le mani sulle guance per timore che le arrivasse un altro schiaffo.
<<Timothy fa schifo come nome.>> aveva protestato <<mi prendono tutti in giro, dicono che sono un maschio. Io voglio chiamarmi Anna.>>
<<Anna? Cosa ha di bello il nome Anna? Timothy è un nome dolcissimo, impara a essere una bambina dolce, invece che la maleducata che sei.>>
Timothy pensava che il nome Anna fosse bellissimo, aveva conosciuto ai giardini una bambina con quel nome.
La piccola Anna indossava un vestito bianco con dei fiori verdi e celesti, aveva dei lunghi capelli biondi tenuti fermi da delle mollettine di Minnie.
Mentre giocava le mollette le scivolavano in continuazione, con pazienza e dolcezza infinita, la mamma si alzava dalla panchina per rimetterle al loro posto nell'acconciatura.
Timothy era incantata da quella scena, Anna era bellissima, a lei nessuno avrebbe mai detto che era un maschio, anche se non avesse indossato le mollette di Minnie.
La situazione non fu migliorata neanche dal tentativo della maestra di darle un soprannome.
<<Piccola>> le aveva detto con tenerezza, comprendendo il disagio della sua alunna <<se non ti piace il tuo nome d'ora in poi, ti chiamerò Timmy, può essere il diminutivo di Timothy.>>
Lei era felicissima, Timmy suonava meglio di Timothy, ma la gioia fu di breve durata, i bambini nella loro innocenza sanno essere spiatati.
Capitò così un giorno che la maestra chiamò Timmy alla lavagna per fare un esercizio e una sua compagna di classe scoppiò a ridere.
<<Timmy>>" ripetè facendo il verso alla maestra <<ora si chiama come uno dei tre porcellini.>>
Tutta la classe scoppiò a ridere, e Timothy scappò nel corridoio a piangere.
<<Sembra una bambina, ma porcellino è in realtà, per Timmy ghiande a volontà, hip hip urrà>> il piccolo compositore non aveva perso tempo e in pochi secondi aveva creato una nuova crudele filastrocca.
Da quel giorno nessun bambino della classe volle più giocare con un maiale puzzolente, e lei rimase da sola.
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Timothy si sedette a osservare la madre che organizzava la tavola.
Disponeva le stoviglie sempre nello stesso modo, se si fossero osservati con cura i segni sulla tovaglia di plastica a scacchi, si sarebbe potuto intuire.
Il piatto a due quadrati di distanza dal bordo del tavolo, il bicchiere a due quadrati di distanza dal piatto, la brocca dell'acqua al centro esatto della tavola, le posate a un quadrato di distanza a destra e a sinistra del piatto, metteva sempre anche il cucchiaio, anche quando non serviva, per non rovinare la geometria della tavola.
"La mangi la pasta?" le domandò sua madre.
Timothy rispose facendo segno di no con il capo.
I cenni del capo e l'espressione del viso erano il modo di comunicare di Timothy, qualche volta scriveva, ma solo se era assolutamente necessario.
Aveva smesso di parlare a ventitre anni, senza che ci fosse nessuna spiegazione apparente, in casa l'avevano considerata una sciocca sfida e non credendola capace di resistere più di un paio di ore non avevano dato peso alla cosa, invece le ore erano passate ed erano passati anche i giorni e lei aveva continuato a rimanere in silenzio.
Erano ormai passati tre anni e nessuno ricordava il suono della voce di Timothy, la sua famiglia, dopo un mese dall'inizio dello sciopero vocale, l'aveva accompagnata da uno psicologo, lei si era seduta sulla sedia di finta pelle nera ed era rimasta in silenzio a fissare il dottore.
Lui da bravo professionista le aveva provate tutte, aveva improvvisato un commovente monologo sul male di vivere, l'aveva pregata di scrivere i suoi pensieri, l'aveva derisa nella speranza di ottenere una sua reazione rabbiosa, ma tutti i tentativi erano falliti, Timothy si era limitata a cambiare espressione ma non aveva emesso neanche un suono.
"Si diverte a farlo" aveva sentenziato il dottore a sua madre.
"Una mia vicina mi ha detto che potrebbe essere un caso di mutismo selettivo" aveva provato a suggerire la signora Patrizia.
"Lo escludo nel modo più assoluto è troppo grande, potete considerarla una sorta di ribellione adolescenziale tardiva, un modo per richiamare l'attenzione" aveva proseguito "Non durerà molto, il desiderio di comunicare sarà più forte di questo sciocco gioco".
"E noi nel frattempo cosa dovremmo fare?" chiese ancora la signora Patrizia "tenerci una muta dentro casa?".
Timothy alzò le sopracciglia e fece un sorriso provocatorio a sua madre.
"Lasciatela stare" consigliò il dottore regalando una carezza pietosa a Timothy "non durerà molto".
Non durerà molto, aveva detto il dottore ed erano passati tre anni.
La silenziosa vita di Timothy era perfetta, aveva un lavoro, degli amici, un fidanzato.
La normalità della sua esistenza era la ragione per la quale continuava a rimanere in silenzio, era convinta che parlare fosse inutile, nessuno faceva mai attenzione a quello che gli veniva detto.
Al liceo aveva letto una frase di Gesualdo Bufalino "la parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello".
Quella frase era ora la sua filosofia di vita, quando voleva comunicare con qualcuno, gli si parava davanti e iniziava a fissarlo, solitamente l'interlocutore rompeva l'imbarazzante silenzio con un "Dimmi" e la fissava a sua volta, in quel momento Timothy era certa di essere al centro dell'attenzione.
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Volevo chiamarmi Anna
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