CAPITOLO SEI: pazzia portami via

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CAPITOLO SEI: Pazzia portami via

New York

1973 D.C

Il cielo era cupo dall'esterno del tetro edificio in cui lavora Anne. Era uno dei luoghi più terribili del mondo, ma era pur sempre un lavoro. Un lavoro che le assicurava un tetto sopra la testa ed i soldi per mangiare. Sicuramente non era uno dei lavori per i quali aspirava da quando era ragazzina, ma non sempre era terribile. Beh, non lo era fino a quando qualcuno all'interno non uccideva qualcuno dello staff o uno dei suoi vicini, oppure quando qualcuno si uccideva. Fino a lì, era più o meno sopportabile. Non certo una cosa spettacolare, ma tentava di andare avanti. Dalla finestra osservava il temporale, l'acqua che picchiettava contro le sudice finestre, che non venivano lavate a dovere. Beh, in realtà nulla era seriamente lavato a dovere in quel posto. Neppure i pazienti. Anche se avrebbero dovuto avere un occhio di riguardo, ma se ne preoccupavano solo quando al manicomio dovevano arrivare dei giornalisti (sgraditi, naturalmente), il sindaco oppure degli operatori per controllare che l'istituto fosse a norma. Ovviamente tutte quelle persone erano assolutamente sgradite per la signora che gestiva il tutto dentro il manicomio. Erano sgradite perché naturalmente l'istituto andava pulito da cima a fondo e necessitava di tutto l'aiuto possibile. Alcune volte aveva addirittura chiesto ai medesimi pazienti di lavare le loro celle, ma quando avevano dato gli attrezzi per pulire, la maggior parte di loro li teneva per poi colpire qualcuno dello staff, oppure li usavano per togliersi la vita. Si, perché nonostante la maggior parte fosse dei criminali suicidi volevano solamente uscire dalla quotidianità. In molti avevano tentato di evadere, ma nessuno di loro aveva mai seriamente varcato l'uscita. Non l'avevano fatto non per le conseguenze delle loro azioni, ma perché fuori di lì non avrebbero saputo come mandare avanti le proprie vite, ed era vero. Dipendevano in tutto e per tutto dagli operatori dello staff, non che la cosa dispiacesse. Per le infermiere più vecchie e più fuori di testa era qualcosa di meraviglioso, perché per loro è come avere tanti piccoli figli 'sperduti'. A volte è addirittura divertente guardarle mentre li accudiscono, beh, almeno quelli che preferivano.. altri erano tenuti in stati tremendamente disumani. Anne però non poteva lamentarsi, la paga era buona, i suoi pazienti non erano nemmeno troppo invadenti o fuori di testa.. volevano solo essere trattati come 'persone normali'. Ma cos'è la normalità? È normalità uccidere, senza battere ciglio, un proprio familiare? È normalità soffocare, nel sonno, il proprio figlio? È normalità credere di essere un soldato nazista? Non lo è affatto.

Anne si scrollò questi sudici pensieri di dosso, e mentre spingeva il carrellino del pranzo di alcuni dei suoi pazienti. Quell'anno ne ospitavano addirittura tremila. Era uno degli anni di maggiore necessità psichiatrica, ma già qualche volta Anne si era chiesta quanti avrebbero superato l'anno. Mille? Trecento? Settecento? Dieci? Chi lo sa.

<< ... è arrivato! >> urla da un angolo una delle tante dipendenti.

<< oh, è arrivato! >> annuisce un'altra, ma Anne non riesce a fare a meno di origliare.

<< Chi è arrivato? >> chiede indiscreta la ragazza, prendendo un vassoio e passandolo all'interno di una delle tante celle. La donna all'interno della cella, lo rimanda però indietro.

<< Mi rifiuto di pranzare! >> urla dall'interno.

<< Le prego di mangiare, Claude >> dice Anne.

<< Ma vi rendete conto per quale fottuto motivo sono qui?! >> impreca.

<< Si, fottuta lesbica >> urla una delle due infermiere avvicinandosi alle sbarre della cella.

<< Ora mangia >> riprende, ma Claude avvicinatasi allo spioncino le sputa in un occhio.

<< Brutta troia! Tranquilla, Anne, lei non ha bisogno del suo pranzo >> dice scaraventandolo contro il muro. Nel frattempo, dalle celle si alza un brusio indefinito per questo piccolo 'scontro' tra le due donne.

Anne and the Olympians: the one hundred livesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora