Epilogo

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Dobbiamo parlare.
Di cosa poi? Cosa voleva dirmi? Magari un'altra motivazione? O un diversivo per far innamorare Esme di lui? C'era solo un modo per scoprirlo, ovvero l'affronto. Spensi il telefono e lo immersi nello zainetto alle mie spalle. Bevvi due sorsi d'acqua frizzante ancora rinfrescante e chiusi definitivamente la cerniera dello zainetto. Pensai a cosa avrebbe voluto dire. Sperai in qualcosa di diverso, ma non potevo esserne certa al cento per cento. Mi bastava solo marciare verso il parchetto, un po' più distante, per parlargli. Il messaggio era chiaro: voleva parlarmi. Forse voleva scusarsi per il modo in cui si era comportato. Forse anche per la soggezione e per il modo fastidioso e abile capace di mettere alla luce la mia violenza verbale. In fin dei conti, l'avevo fatto per lui. Volevo spronarlo ad essere sincero con la diretta interessata, ma non voleva cogliere l'occasione. Esme era presa da altro, ed io da altro ancora. Mancava solo mettere in chiaro le cose e finirla lì, con due parole messe a caso e liquidare l'intero peso che mi portavo addosso come roccia focosa. Bastava un altro passo in più e mi sarei trovata rivolta sul pavimento sfinita.
Dobbiamo parlare.
Ancora mi chiedevo di cosa. Perché non prima? Forse in casa stavano accadendo cose poco reggibili ed aveva bisogno del mio sostegno. Ma non avevo la forza neanche per respirare, figuriamoci per sostenerlo. Non mi andava di parlare o camminare, ma se avevo bisogno di risposte, dovevo ottenerle solo da lui.
Dobbiamo parlare...
Non volevo neanche parlarci. Stavo troppo messa sotto sopra e non mi sembrava il caso di alimentare la situazione. Era un periodo in cui le crisi isteriche andavano raddoppiando, ma dovevo buttarmi e in caso ferirmi.

Giunsi a destinazione. Notai la sua sagoma poggiata su una panchina isolata. Era tutto silenzioso. Non c'era nessuno. E dopo saremmo rimasti soli, io e lui, col silenzio maligno. Si voltò al suono preciso dei miei passi e subito si voltò nuovamente dalla direzione in cui guardava prima. Si portò la sigaretta al labbro e lasciò andare via una boccata di fumo. Era infuriato, quasi. Ma anche impaurito. La cosa non mi allarmava, giacché avevo imparato a conoscere ogni suo lato.
«Che c'è?», gli chiesi avida, senza dargli modo di salutarmi.
«Siediti.», segnò con la mano verso la parte vuota della panchina, al suo fianco. Mi sedetti senza scambiare sguardi con lui, che continuava a guardarmi con tristezza.
«Facciamo in fretta. Devo tornare a casa.»
«Mi dispiace.», disse lui.
«Per cosa?»
«Per come ho reagito.»
«Ah.», fui capace di dire.
«Insomma, sapevo che l'avevi fatto per darmi una spinta verso il coraggio. Eppure-»
«Eppure niente.», conclusi io la frase, ma mi guardò con uno sguardo che mangiava via tutta la rabbia che ribolliva. Era capace di distruggere il male nel mio corpo. Ripuliva lo sporco nella mia mente, e avevo bisogno esattamente di quella sensazione.
«No.», prese parola. «Ho sbagliato, ma mi sono sentito colto di sorpresa. Non sapevo come reagire.», concluse mortificato. Chinò verso il basso il capo, lanciando la cicca della sigaretta altrove. Non si voltava per evidenziare il mio volto. Il suo respiro era normale, ma la tensione pungeva.
«Lo avevo intuito.»
«In che senso?», si voltò guardandomi con sguardo interrogatorio.
«Che mi avresti chiesto scusa. E anche io dovrei chiederti scusa.»
«Ma no. Hai fatto il possibile per me.», confessò. Sorrise con leggerezza ma quel sorriso subito si spense come la cenere rimasta verso la cicca della sigaretta.
«Questo è vero.»
«Lo so.»
«Quindi?», mi voltai io questa volta.
«Quindi cosa?»
«Tutto qui?», chiesi io con fare avido. Ero in preda all'ansia e la delusione fece largo nella anima, lacerandola per bene.
«No.», ammiccò e dentro me la corrente prese a fermarsi, la tempesta si colmò e l'incendio prese a spegnersi.
«E cosa?»
«Ho sbagliato. Ho creduto a qualcosa che non era mai esistito.»
Mi persi nelle sue parole. La sua voce era ben chiara, ma volevo essere certa che avessi capito pienamente il suo scopo.
«In che senso?»
«Nel senso che-». Prese un attimo di pausa. «ho creduto che Esme mi piacesse.».
«Non è così?», chiesi con voce rauca. Mi bruciava la gola e sapevo che la risposta sarebbe stata ovvia.
«Evidentemente no.», annunciò con onestá. La leggerezza vacillò dentro di me ed ero lieta, finalmente, che qualcosa di dubbioso alla fine fosse stato così.
«Allora è stato un falso allarme?»
«Non proprio.» Guardò altrove, senza degnarmi di una motivazione. Aspettai secondi che parvero secoli e cercai di calmarmi, cercai di non alludere a nulla.
«Ho creduto di piacermi perché volevo che fosse un'altra persona.», disse lui. «Ma ho sempre capito che mi piaceva un'altra.», continuò giocando con le dita. «Ho pensato mi piacesse Esme.». Si bloccò, timoroso di essere onesto. «Ma il mio cuore mi portava da te, e la mente pensava costantemente a te.». Il pugno al cuore non schivò il colpo. Il mondo fece una capriola ed il silenzio attorno pareva fatto apposta per noi. Riuscii solo a baciarlo. A rispondergli a mio modo. Ed in qualche modo, sperai che la cosa sarebbe andata a finire in quel modo.

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