capitolo settimo

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Appena tornato a casa, Aziraphale fece finta di aver dimenticato qualsiasi cosa. Si sedette sul divanetto all'ingresso. Prese un bel respiro.

E poi si mise a piangere. Così, tutto d'un tratto. Le lacrime di confusione e rabbia erano rimaste all'interno degli occhi per troppo tempo, cercando in qualche modo di uscire senza un effettivo successo, almeno fino a quel momento. Avevano iniziato a scorrere rapide, come le pupille di un curioso sulle pagine di un libro proibito. Sembravano voler marchiare la pelle del ragazzo a fuoco, mentre con le mani si reggeva la testa improvvisamente pesante come un macigno.

Cosa era successo? Cosa aveva fatto? Cosa aveva detto? Cosa aveva visto? Troppe cose, troppe cose. Il suo cervello cercava di dare un senso alle ultime ore, senza effettivi risultati. Aveva sognato tutto. Ogni cosa. Era la spiegazione più sensata, ma anche quella più semplice da smentire: il suo ventre era ancora sporco di quella sostanza. Lo stesso barattolo era posato sul tavolo davanti a lui, le tracce delle sue dita che permeavano sul vetro opaco.

Forse aveva mangiato qualcosa che gli aveva fatto male. Ingerito per sbaglio delle anfetamine. Qualunque cosa, veramente. Ma non poteva essere successo davvero. Era impossibile. Era impossibile. Era impossibile.

Continuava a piangere. Piangeva senza forma, senza motivo e senza senso. Semplicemente piangeva. La debolezza del suo corpo che scendeva dalle sue guance nelle lacrime. Si sentiva sporco. Si sentiva triste. Senza speranza. Conosceva il discorso, conosceva il discorso. I ragazzi grandi non piangono, i ragazzi grandi non piangono. Non piangeva quando perdeva. Non piangeva quando vinceva. Non piangeva.

E allora perché stava piangendo, in quel preciso istante?

Nulla era accaduto, nulla era successo. Ma forse era per questo che stava piangendo. La bellezza di quell'essere, di quel ragazzo, l'aveva fatto crollare. L'aveva ammaliato, tentato. Come il peggiore diavolo dell'inferno si era fatto desiderare, a tal punto da far prendere il senso ad ogni altra cosa. Stava impazzendo. Era già impazzito. E la causa di tutti erano stati quegli occhi ambrati, magnetici e feroci come il sangue che sgorga da una ferita aperta.

Stava impazzendo. Stava impazzendo. Stava impazzendo.

Un lamento solitario abbandonò la sua gola ancora in fiamme dalla corsa disperata, un ringhio animale che bramava di uscire da ore che non si era preso la briga di calcolare, strizzando quello che rimaneva dei suoi occhi con i palmi delle mani sudate e bagnate di lacrime. 

Sospirò, i bulbi oculari stanchi come la sua anima, e si preparò un tè. Guardò l'acqua muoversi fino alle bolle, per poi metterla in una tazza assieme alla bustina. Lo bevve. E per poco tempo riuscì a calmare il suo animo, l'acqua che gli scaldava le budella e che tentava di pulirlo dall'interno.

Lui amava il tè. L'aveva sempre amato. Tornava da scuola e si faceva una tazza prima di mettersi a studiare. Tornava dagli allenamenti e si faceva una tazza per prendere sonno. Per lui tè significava pace. Fuori dalla finestra vedeva le gocce di pioggia che inumidivano la notte, la luna che era andata a celarsi velocemente dietro le nuvole poco dopo il suo arrivo a casa.

Si sentiva come un marinaio che era tornato a casa dopo un lungo viaggio ai confini del mondo, le dita strette alla tazza. -Eh, è stata una bella avventura- sussurrò a se stesso, come a scacciare i demoni che stavano ancora cercando di battere alla sua testa. -È stata una bella avventura, ma non penso che si ripeterà-.

Sorrise da solo. Un sorriso disperato. Era il momento di andare a dormire. Decisamente.

Si adagiò sul letto, stringendo le dita sulla coperta. Doveva solo chiudere gli occhi. Fare profondi respiri. Nulla di più. Fare profondi respiri. Profondi respiri.

In The Woods Somewhere|Good OmensDove le storie prendono vita. Scoprilo ora