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Questo capitolo è più lungo del solito, è il penultimo, e voglio che ve lo godiate nella sua pienezza.


Wandervogel - Capitolo 9


"Cosa pensi di fare con quella pistola nel tuo cassetto?"

Il suo sguardo non si sposta dal mio, rimane vuoto, ma con una nota di serietà e di rimprovero che mi attraversa tutta la spina dorsale.

È come se mi guardasse dentro o, meglio, oltre. Sembra stia fissando qualcuno oltre me, qualcuno che non posso vedere, esattamente come lei agli occhi di tutti. Immagino in quante persone abbia visto lo sguardo che sto vedendo venire proiettato su di me. E mi sento così in torto davanti a quegli occhi.

Mi sento a disagio a tal punto che mi costringo ad abbassare gli occhi, per poi chiuderli, stringerli fino a quasi sentire male, riuscendo a rilassarmi e a non percepire più quello sguardo come una colpa.

Arrivo al punto in cui sorrido amaro, specialmente quando rialzo lo sguardo verso di lei:

"Ah!" Ridacchio, scuotendo amareggiato la testa: "Parli così proprio tu che ti sei tolta la vita? E ora vuoi impedirmi di fare lo stesso?"

Quasi la rimprovero e il suo sguardo perde quel rimprovero, rimanendo semplicemente neutrale, senza nessun sorriso che le spunti sulle labbra o parole di scherno.

Rimane semplicemente lì, Amelia, ad osservarmi per qualche minuto. Minuto che riempio alzandomi di colpo, continuando a mantenere un contatto visivo con lei, appesantendo i toni e le parole che ti riservo:

"Quindi ora ti stai pentendo, vero? Ti stai pentendo adesso di essere morta e di aver buttato via così la tua vita? E non vuoi che io faccia lo stesso, perché sai cosa significa?"

Le urlo contro, nascondendo in quelle parole un disperato bisogno di dirle quanto la vorrei qui, di farle capire che non mi basta percepirla passarmi attraverso, ma che voglio sentirla completamente. Le vorrei far capire quanto il suo suicidio sia stato un atto egoistico e che se fosse rimasta forse le nostre vite si sarebbero intrecciate, forse ci saremmo conosciuti, innamorati sul serio e avremmo potuto vivere una vita normale, consona, degna di essere vissuta.

Avremmo potuto realizzare insieme i nostri sogni e io non mi sarei sentito un perdente rovinato dagli altri e costretto nella sua gabbia; e lei non sarebbe stata un'ennesima vittima e un'ennesima rappresentazione di quanto la vita sia difficile e confusionaria alla nostra giovane e fragile età:

"I morti come te..." Sbatto il pugno sul tavolo, annullando tutte le speranze di dirle la verità: "... Non devono permettersi di farmi la predica."

Sospiro, cercando inutilmente di calmarmi, mentre lei non cambia espressione, semplicemente appoggia entrambe le braccia sul tavolo, come per degnarmi di maggiore attenzione, aspettando che continui con questa sorta di delirio che mi tengo dentro da troppo:

"Lo sai benissimo Amelia che sono stanco. Sono così stanco di questa vita. Perché continuo a cercare un motivo per sopravvivere? Questa domanda mi ossessiona ogni singolo giorno, perché non ho mai trovato la risposta, per quanto ci provi. E io sono stanco, Amelia, sono troppo stanco."

Mi avvicino a lei e, senza pensarci due volte, muovo le mani come per afferrarle il colletto e stringerla a me, non sapendo neanche io se per rabbia o per bisogno di affetto.

Le mie mani l'attraversano, penetrando nel suo corpo e toccandosi nuovamente, nell'esatto punto dove dovrebbe avere il cuore, che io non percepisco, trovandola vuota come un bel pacchetto di regalo con niente al suo interno:

Wandervogel | TeduaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora