26 Aprile 2005

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26 Aprile, 2005


Salve a tutti voi che solo ora state leggendo le vecchie memorie di un corpo ormai inerme e privo di vita. Gli ultimi voleri di una donna delirante starete pensando o, peggio ancora, di una pazza  che ha ucciso la propria famiglia.
Voi non potete capire.
Nessuno può capire.
Tutta la gente che conoscevo ora si fa il segno della croce quando lascio le loro abitazioni, pensando che il demonio che è in me potesse essere scacciato con un banale segno della croce.
Ma prima di lasciarvi alle vostre urgenti faccende, ci terrei a spianare la mia strada attraverso i pregiudizi della quale vi nutrite, per cercare di farvi comprendere.

La mia vita non è mai stata particolarmente esaltante. Era tutto così monotono e ordinario, i giorni passavano uno dopo l'altro come una ninna nanna infinita. Non accadeva mai nulla che fosse al di fuori del quotidiano. All'inizio amavo questi schemi perfetti per la costruzione delle mie giornate: così semplicemente perfetti senza che ci fosse nessuno a metterli in dubbio o a stravolgerli. Amavo questi schemi perché erano la mia ragione per continuare ad andare avanti, per continuare a vivere serena: erano la perfezione. Mi facevano sentire talmente protetta e sicura di me che dopo qualche anno ero alla ricerca di qualcosa che mi facesse sentire ancora meglio. La noia aveva preso il sopravvento sulla mia perfezione e così cercai un modo di rendere diverse le mie giornate: mi scaricai una app innocente di incontri. Feci un profilo falso ed attesi per qualche giorno quel fatidico messaggio che non tardò ad arrivare per sconvolgermi la vita.

Mi aveva scritto un ragazzo.
Ma non uno qualunque, no, un uomo sulla trentina alto e molto molto bello.

Non ci volle molto per organizzare un appuntamento e dopo una settimana ero lì; seduta sulla veranda di quel bar in centro mentre mi lisciavo le pieghe del vestito ed aspettavo con ansia quell'incontro che mi avrebbe cambiato la vita, che mi avrebbe dato quel qualcosa in più della sola perfezione.
Aspettai solo qualche minuto ed il bel ragazzo si sedette davanti a me con una mano tesa verso di me e l'altra che teneva stretto un mazzo di fiori. Tra noi ci fu subito sintonia, ed anche se non conosceva il mio vero nome, io mi sentivo come se lo conoscessi da una vita. E' facile sembrare simpatica e carina ad una persona qualunque che conosci da solo un'ora.
Nei giorni successivi ci incontrammo parecchie volte in quel bar del centro e tra noi scoccò subito la scintilla, o almeno così mi era sembrato. Dopo qualche settimana mi invitò a cena e successivamente mi ritrovai a casa sua nel suo letto ad aggrovigliarci tra le coperte mentre facevamo l'amore. Mi trasferii a casa sua dopo neanche due mesi che ci frequentavamo ed inizialmente andava tutto a meraviglia: lui era davvero il compagno perfetto, uno concentrato sul lavoro, rispettoso e deciso a formare una famiglia. Avevo trascurato di proposito di dirgli il mio vero nome e del mio disturbo, sarebbe stato meglio così.
La vita andava avanti ed io aiutavo a pagare l'affitto del suo appartamento che ormai condividavamo regolarmente, andava tutto a meraviglia tranne che per una piccola cosa: io ero rimasta incinta. Lo scoprii dopo soli quattro mesi di convivenza, lui non voleva fare sesso con le giuste precauzioni ed io mi ero lasciata condizionare. Diceva sempre: se Dio vorrà avremmo un figlio altrimenti pazienza, ci divertiremo e basta. Lo facevamo con una tale leggerezza che quasi non contava più nulla, non c'era più amore: io soddisfavo i suoi desideri carnali ogni sera e lui così era contento.
Ho continuato a omettere il fatto che fossi incita e lo facemmo quotidianamente per diversi mesi ancora, finché la mia pancia cominciava a farsi notare. Quando lo ha scoperto è andato su tutte le furie: non voleva che una semplice gravidanza, come diceva lui, ostacolasse il desiderio di farmi sua ogni sera. Si è arrabbiato così tanto che alla fine mi ha tirato uno schiaffo in pieno viso lasciandomi per una settimana i cinque segni delle sue dita sulla mia faccia come un tatuaggio indelebile. Però inizialmente si è subito scusato con me, chiedendo perdono per quel colpo di testa. Io credetti che fosse davvero pentito e lo perdonai.
Un'altra volta.
Ed un'altra.
Ed un'altra ancora.

Ero all'ottavo mese di gravidanza e la nostra piccola bambina si stava preparando a nascere, anche se il mio compagno non aveva ancora sgomberato il suo studio per trasformarlo in una cameretta e non aveva ancora comprato i mobili. Inizialmente non ci facevo caso, mi dicevo prima o poi li prenderà, magari mi farà una sorpresa.
Mi sbagliavo.
Non ha mai comprato nulla.
Tanto a cosa sarebbe servito, il suo piano non lo comprendeva.

Una mattina mi svegliai, scesi dal letto ed andai a preparare la colazione per tutti e due come facevo sempre. Andai a prendere il giornale per il mio compagno, come facevo sempre. Aprii la porta del nostro appartamento, mi affacciai alle scale e sentii una mano che mi spinse giù. Una mano molto familiare.

"Puttana, muori!"

Ecco. Queste furono le ultime parole che sentii prima di svenire in un mare di sangue, che macchiava il pianerottolo di quarzo bianco delle scale.
Dopo un tempo che mi parve infinito, mi risvegliai in ospedale con il mio compagno accanto a me che mi teneva la mano mentre dormiva. Nella stanza c'era anche un dottore che mi spiegò che cosa fosse successo. Ricordo quella parole come se fosse ieri.
Mi colpirono in pieno volto come il primo schiaffo che mi aveva dato quel bastardo.

"Signora, sono lieto che si sia svegliata. Il suo compagno ci ha raccontato tutto; ci ha detto che si era appena svegliato quella mattina, che non la vedeva e quindi è venuto a cercarla e l'ha trovata svenuta sulle scale. Secondo lui è scivolata per via di una crisi del disturbo che ha. Lei sta bene ma, purtroppo la bambina non ce l'ha fatta. Mi dispiace."

La mia bambina era morta.
Non ero scivolata dalle scale, lui mi aveva spinta.
Come faceva a sapere del mio disturbo?

Tutte queste informazioni mi vorticavano nel cervello provocandomi una nausea incontenibile. Vomitai nel letto. Il dottore mi chiese se stavo bene ed io non risposi.
Non parlai più.
Mai più.
Mi chiusi nel mutismo mentre la mia mente architettava la sua vendetta.

Mi dimisero dall'ospedale dopo qualche settimana. In giro le voci correvano già: si diceva che avessi ucciso mia figlia di proposito per via della mia malattia mentale, che mi fossi buttata giù da sola dalle scale per uccidere quella creatura che portavo in grembo.

Una notte mi alzai dal letto con un gesto meccanico, presi la pistola che il mio compagno nascondeva in casa, come diceva lui per sicurezza, e gli sparai dritto dritto nel cuore sussurrando una frase dopo mesi di mutismo.

"Questo è per mia figlia"

Dopo quella notte tutti mi accusarono di essere pazza e di aver ucciso il mio compagno per la mia malattia mentale che mi rendeva una persona capace di uccidere l'uomo che ama.

Per anni ho vissuto attraverso i pregiudizi della gente, nascondendomi in casa, non uscendo mai e facendo scena muta in tribunale. Ma poi ho incontrato il vero amore della mia vita: mio marito Valentin, che mi ha convinta a confessare tutto dicendomi che i giudici avrebbero sicuramente capito.
E così feci.

Andai in tribunale e raccontai tutto: del mio compagno violento e di mia figlia, del mio disturbo e del mio vero nome. Ma non andò come previsto.

Il 24 Aprile 2005 fui condannata all'ergastolo per frode e per omicidio volontario. Così presi la decisione che ora mi vuole in paradiso o all'inferno.
Lascio tutto ciò che ho a mio marito Valentin ed a mia figlia Violet lascio la pistola con cui ho reso il mondo un posto migliore.

Ora potete tornare alle vostre frenetiche vite bruciando il testamento di una malata di mente impossessata dal diavolo.

Pace a voi fratelli e che il diavolo che era in me, si impossessi della persona che merita di accoglierlo.


In fede, Viviana

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