Capitolo 21

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Accadde tutto così in fretta. Troppo in fretta. In quelli che sembrarono cinque minuti scarsi, Levi si ritrovò catapultato da una fredda sala di attesa a un gelo ben diverso. Quel terzo giorno di aprile pioveva, pioveva a dirotto. Il cielo era talmente buio che parevano essere le 8:00 di sera, mentre, in realtà, non erano nemmeno le 5:00 del pomeriggio.

Il cimitero, già macabro di per sé, aveva assunto un aspetto ancora più spettrale, ma questo, a Levi, non importava minimamente. Così come non gli importava di essere ormai fradicio.
Il funerale era finito da un pezzo, ormai, ed erano rimasti solo sé, sé stesso e lui, a fare i conti con un presente che, già lo sapeva, non avrebbe probabilmente mai accettato.

Come sarebbe mai stato capace di rientrare in quella casa, senza dover sentire il rumoroso suono dei passi tutt'altro che legiadri della sua amica? Senza le sue risate, le sue battute, il suo essere così scurrile? Senza la sua capacità di capirlo al volo, di sostenerlo, di dargli i migliori consigli? Come?

E no, Levi non avrebbe versato neanche una lacrima. Non perché non volesse, ma perché non ne era capace. L'istinto di piangere, in quel momento, in quei giorni, non si era nemmeno intravisto.
Si sentiva solo. Terribilmente solo. La stessa sensazione provata anni prima, quando perse sua madre. Anche lei venne portata via da una malattia.

Improvvisamente la pioggia smise di bagnare i suoi capelli corvini e i suoi vestiti del medesimo colore. «Ehi.»
Ed eccolo lì, immancabilmente Eren, accanto a lui, con un ombrello rosso cremisi in mano per ripararli dalla pioggia. Lo scrutava con gli smeraldi che possedeva al posto degli occhi, ma il suo sguardo non fu ricambiato. Anche se Levi non poteva (o forse non voleva) guardarlo, sapeva con certezza che i suoi occhi fossero lucidi e ancora rossi, il ragazzo non aveva pianto per ore, ma per giorni.
«Sei fradicio.» Constatò il ragazzo, ma non ricevette risposta alcuna. Se non avesse conosciuto bene Levi, avrebbe pensato che non stesse sentendo le sue parole.
«Dovresti tornare a casa.»

«Lasciami solo.» Furono le uniche due parole che il moro riuscì a proferire.

Si aspettava una reazione delusa da Eren, si aspettava che avrebbe insistito per farlo andare via, o che comunque sarebbe rimasto con lui. Invece ciò che ottene fu un debole sorriso e un bacio sulla guancia. «Lo capisco, tranquillo, appena ti senti un po' meglio chiamami. Però tieniti l'ombrello, non voglio che ti venga un malanno.»

«E tu?» Non seppe come fu in grado di avere premura per lui, in quel momento, ma quella domanda fu spontanea.

Eren sorrise di nuovo. «Tranquillo, io tra pochi istanti sarò in macchina.»

Nel momento in cui il maggiore afferrò l'ombrello che il ragazzo gli porgeva, le loro mani si sfiorarono, forse accidentalmente, o forse di proposito, in una rapida e velata carezza. Dopodiché, il castano gli voltò le spalle e se ne andò, lasciandolo solo proprio come lui desiderava.

Aveva ripercorso tutti gli istanti passati con Isabel, quegli ultimi ventidue anni di felicità, follie, avventure. Non aveva il coraggio di tirare il telefono fuori dalla tasca, non sapeva nemmeno se fosse effettivamente lì. Il suo blocco schermo era proprio una foto ritraente il loro mitico trio. Non sarebbe riuscito a vederla su quello schermo, sapendo che non avrebbe più potuto sentire la sua voce, il suo profumo, la sensazione dei suoi abbracci.
E chissà Farlan dove si trovava in quel momento. Una volta finito il funerale non lasciò alcuna traccia di sé stesso, probabilmente nemmeno sarebbe voluto essere presente. La ragazza della quale era innamorato da anni adesso non c'era più. Riusciva a mettersi nei suoi panni, eccome se ci riusciva. Quando Eren ebbe l'ictus si sentì morire.
Dubitava che l'amico fosse tornato a casa, se non per prendere qualche vestito e andare altrove. E questa era forse la cosa peggiore.

Underground - EreRi/RiRen - ITADove le storie prendono vita. Scoprilo ora