Li boni festi - parte seconda

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Sebastiano e Antonino non sarebbero potuti essere più differenti: il primo focoso, goliardico e cocciuto, il secondo mite, paziente e pacato. Erano come due arterie diverse, ma in fondo fatte della stessa sostanza, animate dallo stesso battito. Osservarli mentre conversavano aveva un che di intrigante.

«Strano che non ti abbiano riformato» affermò dal nulla Sebastiano.

Antonino prese un sorso di latte di mandorla. Era tradizione offrirlo agli ospiti nelle calde giornate estive e la signora Cuzzopodi non era certo il tipo che si faceva cogliere impreparato.

«Avrebbero dovuto?» chiese calmo il biondo.

L'altro sollevò le spalle «Beh, sei nobile. Un qualche cavillo l'avrebbero trovato di sicuro».

Non avevo mai sentito nessuno esprimere pubblicamente la propria opinione su un Romeo e su ciò che la sua famiglia rappresentava. Non era il primo a criticare l'aristocrazia e certamente era cosciente che non sarebbe stato l'ultimo a farlo. Bastava fare attenzione alle parole che Giuseppe sputava fuori con rabbia per rendersi conto di quanto disprezzo fosse riservato ad Antonino e, soprattutto, ad Antonio. Questo perché c'erano ancora persone che si ostinavano a vedere il mondo in bianco e nero, una realtà in cui o nasci ricco o vivi nella miseria. Come se non fossimo in grado di evolvere, di elevarci, di sfidare convenzioni e imposizioni. Per questo motivo, nonostante fossi abituata a commenti e allusioni pungenti, mi diede incredibilmente fastidio il modo tagliente e saccente con cui Sebastiano aveva etichettato il ragazzo. Antonino poteva pur aver goduto di privilegi che a noi non sarebbero mai stati concessi, ma, con la risposta che diede, dimostrò effettivamente di meritarsi di essere chiamato "signorino".

«Peccato che io non sia nobile, non del tutto, per lo meno. Ciò che è certo, però, è che in me non c'è un briciolo di codardia o di viltà. Se il Re chiama il Paese alle armi, non si rivolge solo al contadino delle Madonie o all'operaio di un'industria Torinese. Chiama tutti e la risposta deve essere unanime. Già non basta un titolo per essere nobile, come puoi definirti tale se hai pure l'animo meschino?».

Sebastiano lo osservò restando in silenzio, come se stesse riascoltando il discorso nella sua testa. Noi donne ci guardammo, sperando che non avesse inizio una lite o, peggio, si arrivasse alle mani. Invece sulla faccia del moro comparve un ghigno divertito e, subito dopo, lui allungò un braccio per dare una pacca sulla spalla ad Antonino.

«Mi piaci, Romeo! Così si parla!». L'ordigno non era esploso.

Il pomeriggio continuò tra un ricordo di guerra e un altro, con qualche interruzione quando la madre di Giuseppa si ricordava di avere altro cibo da offrirci. Mi chiesi se tutta quella carineria fosse dovuta a un sincero altruismo o al tentativo di mettersi in mostra, come faceva solitamente la figlia. Questo dubbio non mi fermò da prendere un'altra manciata di càlia, ceci abbrustoliti.

Quando la campana della chiesa annunciò che s'erano fatte le sei del pomeriggio, Antonino si alzò dalla sedia.

«Bene, direi che è arrivato il momento di lasciarvi un po' da soli. Chissà quante cose dovrete raccontarvi!».

Sebastiano fece per alzarsi, ma il biondo lo fermò subito.

«No, no, no, non ci provare. Riposati, Dio solo sa quanto ne hai bisogno».

Cozzopodi sorrise, grato.

«Quanto ti fermi in Calabria?» domandò a Romeo. Avevo paura di conoscere la risposta. Cominciai a grattarmi le cuticole dal nervosismo.

«Non c'è una data. Rimarrò finché ci sarà bisogno di me, qui». Sentii i nervi distendersi, come se si fossero sciolti mille nodi.

«E che farai nel frattempo?»

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