Ciano - prima parte

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CAPITOLO 1
CIANO


Triangulu di Luna, triangulu di cima,

populu di mari 'nchjana lu Cianu.

Nu rre sedutu supr'a na petra

guarda lu mari, guarda lu mari,

guarda lu mari di la muntagna.

Genti chi 'nchjana carricata di guerra

'ntra li friscuri, 'ntra li friscuri,

'ntra li friscuri di Cianu.

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Triangolo di Luna, triangolo di cima,

popolo del mare sale al Ciano.

Un re seduto sopra una pietra

guarda il mare, guarda il mare,

guarda il mare dalla montagna.

Gente che sale carica di guerra,

tra le frescure, tra le frescure,

tra le frescure di Ciano.

La guerra mondiale aveva mietuto con più foga di Cerere in luglio. Rabbiosa come Attila, era piombata nel continente portando miseria e desolazione nei paesi che, sventurati, vi si erano imbattuti. La sofferenza non aveva fatto sconti: ogni trincea sul campo di battaglia era una crepa nel cuore di chi era rimasto a casa, ad aspettare, invano molte volte, che una divisa verde oliva si facesse strada nella penombra. Non erano solo mitraglie, mine, ferro spinato; era perdita e mancanza, era incubo e disillusione. Non era necessaria un'uniforme per trovarsi nella terra di nessuno: l'Europa intera, stuprata, spodestata, era ormai priva di guida. Viaggiavamo alla deriva, profughi su una zattera troppo stretta e precaria.

Col cessate il fuoco, però, la guerra aveva deciso di mostrare l'altra sua faccia. La paura era scemata come il fumo e la polvere che avevano dominato gli anni precedenti, lasciando spazio a una speranza violenta, capace di trascendere supposizioni e ovvietà. Ogni giorno giungevano notizie di nuovi soldati rientrati dal fronte; l'idea di non essere più dei sottoposti, delle pedine di un gioco le cui regole erano ancora a loro sconosciute, sembrava lenire quella moltitudine di ferite, lividi, traumi che li avevano inevitabilmente segnati. Ci trovavamo così ai blocchi di partenza, pronti a correre verso l'abisso di una vita a noi ancora estranea.

Mi fu immediatamente chiaro che già tutti avessero fatto i conti con il proprio passato, mentre io proprio non avevo intenzione di guardarlo negli occhi. Riuscii, non senza sforzi, a scansarlo per mesi, crogiolandomi nella possibilità che mai mi avrebbe trovata. Ma fu infine lui a fare la prima mossa, quando un giorno di metà estate bussò alle dannate porte della Martiniana.

     Non faceva mai caldo in quelle stanze umide in cui ci avevano relegati, eppure quel mattino c'era un'afa insopportabile, di quelle che ti assalgono intrappolandoti nella loro morsa. Già dal risveglio percepii che ci fosse qualcosa fuori posto. Ricordo che non volevo alzarmi dal letto per alcuna ragione al mondo. Lo sapevo, ovviamente, non facevano altro che parlarne per i corridoi e nelle cucine. "Il ritorno del figliol prodigo" lo avevano definito tutti elettrizzati, ma io avevo le mie ragioni per sottrarmi a tale eccitazione. Più che un ritorno, mi sembrava un tradimento, la beffa di uno spregiudicato. Mai mi sentii male come in quella mattina di attese e di ricordi. E lo percepivo quel male, non si nascondeva in chissà quali pensieri reconditi. Voleva uscire, urlare e mi sfruttava come mezzo per far avvertire la sua presenza. Oltre che sguattera, ero divenuta anche schiava, di un padrone ben più temibile del burbero Romeo.

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