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Il ticchettio delle lancette mi rimbombava nelle orecchie, mentre le voci basse dei miei compagni non erano altro che rumore di cui non riuscivo ad afferrare il significato. Disegnavo cerchi concentrici sul taccuino con una penna blu quasi scarica, maledicendomi per non essere riuscita a stare attenta alla lezione per l'ennesima volta.
"Mancano solo due settimane al test finale di Neurologia, stupida!"
Mi ripetevo nella testa, ma non c'era nulla da fare. Quello era il corso più noioso che avessi mai seguito da quando avevo iniziato il College, anche passarlo con il minimo dei voti sarebbe stato un sollievo, una liberazione.

O forse era solo colpa del Prof. Taylor, della sua voce troppo acuta e lagnosa, e della barba trascurata con cui si presentava a lezione.
Lo vidi distrattamente posare il manuale sulla cattedra, guardarsi attorno con aria tediata per poi sbuffare in modo rumoroso, facendo alzare per qualche secondo i baffi grigi che gli contornavano la bocca.
"Bene classe, ho potuto notare il vostro disinteresse nei confronti della mia spiegazione". Disse alzando il tono della voce di qualche ottava, cosa che la rese ancora più fastidiosa. Improvvisamente l'aula si fece più silenziosa.
"Dunque la lezione finisce qui, ma sappiate che l'argomento sarà oggetto d'esame, e mi assicurerò che le domande siano il più specifiche possibili". Concluse la frase dipingendosi il volto di un sorriso derisorio.

"Stronzo". Sussurrai tra me e me. Riposi il quaderno e le penne nella tracolla, infilai la giacca e svogliatamente mi alzai dalla sedia.

"Lily! Lily!" Sentii chiamarmi dalla voce dolce e piena di Dede, mentre sventolava la mano e cercava di farsi spazio tra la folla che intanto stava uscendo dall'aula.
Le sorrisi in risposta appoggiando il sedere sul banco per aspettare che mi raggiungesse.

"Eccoti!" Mi schioccò un bacio veloce sulla guancia destra. "Credevo non saresti venuta oggi! Ti avrei tenuto il posto ma ultimamente le lezioni di Taylor sono seguitissime". Rise aggrottando di poco il naso all'insù.

"Già, ero in ritardo, come undici volte su dieci del resto" alzai le spalle in segno di rassegnazione.
La mia vita era una corsa, ed io arrivavo al punto di inizio quando tutti gli altri avevano già tagliato il traguardo.

" Quanto meno trovo il tempo per Netflix e per fare la pipì" pensai sarcasticamente mentre mi dirigevo verso l'uscita.

"Ma.. Troverai il tempo per venire alla festa della tua migliore amica, vero?!" Parlò con tono melodioso allungando l'ultima sillaba, sembrava che stesse intonando una canzone.
"Certo, non mancherei mai. Dovresti saperlo" Le strinsi la mano destra sorridendole dolcemente.

Non era la mia migliore amica. A dire la verità ci conoscevamo da poco più di un anno, da quando avevo iniziato il College. Il primo giorno mi sedetti di fianco a lei, e da quel giorno è come se mi avesse presa sotto la sua ala. Non che ne avessi bisogno, o che glielo avessi chiesto.
Ma lei era la tipica ragazza bella, estroversa che aveva sempre avuto tutto dalla vita. Quindi, ne ero sicura, sentiva il bisogno di essere esageratamente gentile con gli altri per essere apposto con la sua coscienza.

Mentre io mi prendevo cura di mia madre e dopo scuola lavoravo come panettiere fino alle dieci di sera, lei era da qualche parte nel sud dell'Europa a bere il suo primo calice di vino e a fare amicizia con i bei e viziati  figli dell'alta-altissima- borghesia.

Quindi sì, eravamo diverse. Troppo perché io potessi aprirmi a fondo con lei o invitarla nel piccolo bilocale in cui vivevo con altre cinque persone.

Ma lei era buona. Quasi come se la superficialità e lo sfarzo del mondo da cui veniva non l'avessero fuorviata affatto. Le volevo bene, e sapevo che lei ne voleva a me.

"Perfetto! Ricordati, sabato al Petrus alle 21:30. Ah e vestiti di bianco!" disse portando una mano sulla mia spalla. La strofinò appena, puntò i suoi occhioni celesti nei miei, marroni e banali, per poi assottigliare lo sguardo. Come se sapesse che non ero per nulla convinta di andarci e che, quindi, avrebbe dovuto quasi obbligarmi a farlo.

"Certo Dede, ora devo andare, sono in ritardo per il lavoro". Le lasciai un bacio veloce sulla guancia rosea e corsi maldestramente verso la fermata del mio bus, sorprendendomi di non averlo perso. Forse sarei riuscita ad arrivare in tempo al mio turno serale al Leon.

Fin da piccola mi avevano sempre raccontato la storiella del 'la vita è una corsa ad ostacoli, ma prima o poi ce la farai, arriverai al traguardo, tutti i tuoi sforzi saranno ricompensati e blah blah blah'.

Ecco, era tutta la vita che lottavo, più contro me stessa che contro gli altri. Eppure, io, Lily Rose Parker, all'età di ventun anni ancora non avevo concluso nulla.
Vivevo in un buco sudicio con i miei e altri tre fratelli, ovviamente più piccoli e molto rumorosi.
Mi facevo in due tra lavoro, studio e famiglia, perché mia madre era malata da anni, e quelle tre pesti in pratica le avevo cresciute io.

Ero sempre in corsa contro il mondo, ma la realtà è che non avevo idea di dove stessi andando.

L'unica cosa bella della mia vita, James, il mio ex-ragazzo, mi aveva lasciata perché ero talmente vuota da non riuscire più a dare niente neppure a lui.

Ero un enorme ed irreparabile errore cosmico dagli occhi e i capelli marroni, che vestiva di seconda mano e che il più delle volte odorava delle patatine fritte del Leon di deodorante sotto-marca.

Posai la testa sul finestrino appannato del bus, abbandonandomi alle note soavi della canzone che usciva dalle cuffiette. Era quasi estate, eppure il cielo era grigio e c'era così tanta nebbia che faticavo a vedere le macchine davanti a noi. Ma quella era Londra, ed io la amavo per questo.
Quel clima si adattava perfettamente al mio umore, ed io non mi sentivo mai fuori luogo o in colpa nell'indossare capi scuri anche in piena estate.

Vidi i tavolini del Leon scorgere dalla fine della strada. Ero arrivata. Mi alzai facendo attenzione a non cadere per colpa di qualche dosso e mi diressi verso la portiera, che intanto si stava aprendo.

Camminai pochi passi e fui subito all'interno del locale. Un odore ferrigno di frittura mi invase le narici dandomi quasi la nausea. Odiavo quel posto e odiavo quel dannato lavoro.

"Parker! Finalmente, sei in ritardo!" Mi canzonò il titolare. Un ometto alto poco più di un metro e sessanta, dai capelli ramati e la faccia rossastra per le troppe birre che si scolava, anche durante il turno di lavoro. Gli riservai il migliore dei sorrisi falsi e mi diressi verso lo spogliatoio per infilarmi la divisa.

"Va a finire che ti licenzio" finì ridendo tra i baffi sudici, abbassando di poco il tono della voce.

Feci finta di niente e chiusi la porta alle mie spalle. Non poteva farlo e lo sapeva. Ai pieni alti, dove di lui non sapevano neanche il nome, avevano irrigidito la politica dei licenziamenti a causa delle molte denunce che avevano ricevuto da ex dipendenti che erano stati liquidati senza neppure un preavviso o un'ultima busta paga.

Dopo essermi cambiata diedi una veloce occhiata al mio riflesso nello specchio.
"Sei un po' troppo spenta per avere solo vent'anni, mia cara Lily" sospirai indossando il cappellino color rosso porpora.
Contai fino a tre, alla ricerca disperata di un ultima dose di energia che mi permettesse di terminare quella giornata senza avere un crollo psicologico. Mi girai verso la porta e mi diressi subito verso il bancone, sorridendo falsamente ai clienti che nel frattempo erano entrati nel locale.
Solo poche ore e sarei sopravvissuta anche a quel giorno d'inferno.

Ma in quel momento non avevo idea che il peggio doveva ancora venire. Perché la realtà è che la vita monotona che tanto detestavo, da lì a poco sarebbe stata sconvolta per sempre.


spazio autrice
Buona seraa,
Spero davvero che il primo capitolo vi sia piaciuto!
Se vi va lasciate un commento e una stellina,
aggiornerò il prima possibile.
Bacini ☾♥︎♥︎

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