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Sottolineai la millesima parola dalla pagina del manuale di Neurologia, senza che la ricordassi per più di qualche secondo. Avevo trascorso l'intero pomeriggio tentando di appiccicare alle pareti della mia mente il programma d'esame, fallendo in modo pietoso.
Passai le dita sull'inchiostro sbiadito, per poi scrocchiare il mio collo dolorante. Ero stata seduta in quella posizione per ore.
Sbuffai pesantemente, arrendendomi alla stanchezza e alla disperazione che quel giorno si stavano facendo sentire più del solito.
Mi alzai dalla sedia ammaccata, che emise un suono sgradevole e fastidioso.
"Va a finire che questo esame neanche lo do" pensai ad alta voce mentre mi dirigevo verso la finestra all'altro lato della stanza.

Era sabato. Il che voleva dire due cose: avevo sprecato l'ennesima settimana rincorrendo una carriera brillante che non avrei mai avuto. E, cosa ancora peggiore, quella sera c'era la festa di Dede. Io non dovevo far altro che indossare l'unico vestito bianco che avevo nell'armadio, e stamparmi un grande e raggiante sorriso -falso- sulle labbra.

"Lily! Lily!" la vocina intensa e vivace del mio fratellino, Ethan, mi distrasse dai quei pensieri avvilenti.
"Dimmi Tee" sbuffai aprendo la porta della mia stanza.
"Mi aiuti a fare i compiti di matematica?" Cantò con tono melodico ed estremamente dolce. Stampò sul suo visino tenero un sorriso che andava da un orecchio all'altro.
"Ethan!" Lo richiamai con tono di rimprovero, lui si raddrizzò di scatto strabuzzando i suoi occhioni verdi, profondi e calamitanti come quelli di nostra madre.
" Te l'ho già detto, oggi esco con Dede. Dovevi chiedermelo prima, ormai sto uscendo" pronunciai le ultime parole più dolcemente, così da assicurarmi di non farlo rimanere male. Ciondolò da un piede all'altro per qualche istante, mentre il suo viso si dipinse di una smorfia di delusione.
"Ma io-" si lamentò alzando notevolmente il tono della sua voce.
" Ma niente, io ora devo andare. Chiedi a papà quando torna da lavoro" gli ordinai categorica. Alzò le spalle in segno di sconfitta e si voltò verso il piccolo corridoio, non prima di avermi riservato uno sguardo amareggiato, e sapevo bene il perché.
Nostro padre sarebbe tornato esausto da dodici ore di lavoro sfiancante. Avrebbe avuto solo la forza di andare a dare un bacio sulla fronte di nostra madre, che ormai erano mesi che non si alzava dal letto. Era diventato un rito. Ancor prima di togliersi gli scarponi lerci di fango o di aver salutato me e i miei fratelli, lui si catapultava svelto ai piedi del loro letto matrimoniale. Poi stava lì, la guardava amorevolmente dormire, passandole le mani ruvide sulla testa glabra. Se era sveglia la salutava con voce appena appena soffiata, così da non nuocere alla sua emicrania. La ammirava, ed ero sicura, l'amava. Più di se stesso, e forse anche più di quanto amasse tutti i suoi quattro figli messi insieme.

Leggevo lo sconforto nei suoi occhi, quando le sue parole non ricevevano alcuna risposta, niente più di uno sguardo vuoto o di una leggera pressione sulle dita della mano con cui lui aveva stretto la sua.

Mia madre era lì. La stanza aveva il suo odore, quello delle medicine e dei sacchetti per urina che ogni giorno, a turno, le cambiavamo. Non si alzava mai, non ci riusciva. A volte mi chiedevo se ancora si ricordasse il colore del cielo, il rumore del vento nelle orecchie e delle risate delle persone che mentre cammini per strada ti passano accanto.

Mia madre era lì, in quella stanza, ma in realtà di lei c'era solo il contorno, una forma vuota che nessuno di noi era in grado di riempire.
Eravamo incapaci davanti al suo dolore, alla sua malattia. E tutto ciò era troppo da sopportare, tanto che talvolta mi ritrovavo a sognare di scappare, di cancellare tutto ciò che ero stata e di ricominciare da capo in un qualsiasi altro luogo lontano.

. . . . . . . .

Asciugai i miei lunghi capelli marroni, facendo attenzione a togliere tutti i nodi. Infilai l'intimo migliore che avevo trovato nel fondo del cassetto e misi il vestito bianco che avevo appoggiato sul bordo del letto.
Era di mia madre. Ed era un bel vestito seppur vecchio, lungo sopra le ginocchia, decorato in pizzo e con un leggero spacco sul lato della coscia sinistra. Legai il laccetto dell'unico paio di tacchi che avevo, nonostante mi facessero sentire insicura e sempre sul punto di cadere da un momento all'altro.

Tra Quiete e Tempesta Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora